Bring Her Back, la recensione: l'elaborazione del lutto nel nuovo horror dei fratelli Philippou

Dopo Talk to Me, i registi australiani tornano a colpire con un film visivamente potente e suggestivo per come racconta l'elaborazione del dolore. Tuttavia i registi peccano nell'arricchire fin troppo l'immaginario che fa da sfondo alla storia. In sala.

Un'immagine di Bring Her Back

Quando abbiamo visto Talk to Me alla Berlinale più due anni fa, abbiamo subito capito che ci trovavamo al cospetto di un horror fuori dal comune, più coraggioso e potente di tante produzioni che si adagiano sull'immediatezza del jumpscare senza cercare di scavare più a fondo e trasmettere qualcosa di più sottile e disturbante. Era stato chiaro dopo quella visione che Danny e Michael Philippou avessero qualcosa di personale e coraggioso da dire, e lo hanno confermato con il loro nuovo lavoro, Bring Her Back, nelle nostre sale a cavalcare la peculiare abitudine nostrana degli horror estivi: il nuovo lavoro è sì imperfetto, come lo era anche il precedente Talk to Me, ma capace di colpire con immagini di grande impatto e di evocare un senso di inquietudine che permane anche al termine della visione. Un merito, per come la vediamo noi.

Storia di due fratelli

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Andy e Piper, i due fratelli protagonisti

Bring Her Back - Torna da me racconta la storia di Andy e Piper, due fratelli già orfani di madre che una volta perso anche il padre si trovano a essere affidati alle cure dl Laura. Una sistemazione che si rivela subito spinosa per i due fratelli: innanzitutto Laura ha a sua volta perso una figlia, Cathy, affogata nella piscina di casa; in secondo luogo la donna inizia a minare la sicurezza di Andy e sottolinearne le fragilità e i precedenti problematici, per far passare l'idea che sia inadatto a occuparsi della sorella, una volta raggiunta la maggiore età nel giro di qualche mese.

Se Piper, che è ipovedente, ha dei punti in comune con la figlia deceduta di Laura, anche lei cieca, ulteriore variabile preoccupante della loro sistemazione è l'altro ragazzo affidato alla donna, Oliver, chiuso nel suo mutismo in risposta ai traumi del suo passato. Una situazione non idilliaca, insomma, alla quale si aggiunge la scoperta di un inquietante rituale portato avanti da Laura.

Il senso dei Philippou per l'immagine

Pur essendo un film diverso, per certi versi, dal fenomeno Talk to Me, Bring Her Back si va a inserire con coerenza nel percorso artistico dei fratelli Danny e Michael Philippou, che confermano con questo nuovo lavoro un forte ed energico senso della messa in scena: se nel film precedente l'idea della mano si concretizzava in un oggetto da subito iconico nel panorama horror, qui è la cura della messa in scena e della costruzione di immagini d'impatto che lascia il segno ed evoca suggestioni che riescono insieme ad affascinare e inquietare. Per i due registi lo schermo è un quadro su cui dipingere immagini dalla messa in scena ricercata, che riescono allo stesso tempo a non risultare fredde o troppo costruite.

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Una scena di Bring Her Back

Peccato che il contraltare di questa ricerca visiva e della costruzione dell'atmosfera rischi di sfociare in tempi dilatati e una certa lentezza nello sviluppo del racconto: nel prendersi i propri tempi per costruire la tensione, i due registi indugiano fin troppo su alcuni passaggi e dettagli che paradossalmente rischiano di allentarla. È forse con questa consapevolezza in mente che i Philippou evitano di soffermarsi sul folklore dietro la storia, sulle origini e i dettagli del rituale a cui si dedica la Laura di Sally Hawkins. È il punto che meno ci ha convinti del film, che ci ha lasciato sì con la curiosità di approfondire (ci sarà spazio in eventuali sequel?), ma anche con un pizzico di insoddisfazione.

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Bring her Back e l'elaborazione del lutto

Eppure, riflettendo a mente fredda, arriviamo a capire anche il senso di questa scelta: gli autori decidono di porre il focus su Laura e sul suo dramma interiore, su quel drammatico percorso di accettazione del lutto che si riflette in quello vissuto a loro volta da Andy e Piper. Per questo hanno scelto un'attrice di grande intensità come Sally Hawkins, capace di veicolare su schermo i tormenti del suo personaggio e le derive che ne scaturiscono, capace di suscitare interessanti riflessioni sull'elaborazione del lutto che dal comportamento della sua Laura emergono con squilibrata intensità.

Bring Her Back Torna Da Me Jonah Wren Phillips Sequenza
Jonah Wren Phillips è Oliver nel film dei fratelli Philippou

Per questo, pur nella sua imperfezione, Bring her Back è un titolo che lascia qualcosa, che colpisce con le sue ossessioni e che conferma che Danny e Michael Philippou sono una coppia di registi da tenere d'occhio, perché potranno regalarci incubi ancor più solidi e disarmanti una volta affinati alcune caratteristiche del loro cinema.

Conclusioni

Da Talk to Me a Bring Her Back, un'altra invocazione come titolo, un'altra supplica che lega umano e soprannaturale. In questo spazio sottile tra il mondo terreno e spirituale si celano le inquietudini del nuovo film dei fratelli Philippou, che riflette sull'elaborazione del lutto e sul traumatico percorso dei protagonisti. Peccato non aver approfondito un po' di più gli aspetti folkloristici e di background della storia, ma la scelta di affidarsi all'intensità di Sally Hawkins ha un suo preciso senso narrativo. Il nuovo film è l'ulteriore conferma dell'abilità dei registi nella costruzione di immagini d'impatto, che ci fa ben sperare per il loro futuro artistico.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
N/D

Perché ci piace

  • Il senso di Danny e Michael Philippou per la messa in scena e la creazione di immagini potenti.
  • La riflessione sull'elaborazione del lutto.
  • La capacità di evocare un senso di inquietudine che permane anche al termine della visione.

Cosa non va

  • I tempi dilatati, che creano atmosfera ma rischiano di perdere l'attenzione dello spettatore.
  • Tanto del background della storia non viene approfondito e, pur senza scadere in inutili spiegoni, avremmo gradito qualche dettaglio in più.