Brennero, la nuova fiction Rai, ha vissuto un buon passaparola in questa prima settimana di programmazione su Rai1 (è già disponibile interamente su RaiPlay e in onda ogni lunedì in prima serata con una nuova puntata). Questo, grazie soprattutto alla forza della narrazione nel presentare un crime che non racconta una storia vera ma che potrebbe tranquillamente esserlo. Abbiamo chiacchierato con una dei due protagonisti, Elena Radonicich, e uno dei due registi, Giuseppe Bonito, a testimoniare il dualismo al centro della storia.
Una storia quasi vera
"Si tratta di un privilegio approcciarsi ad un progetto come questo" dice Radonicich - "perché avere un contesto storico plausibile ma narrare una storia di finzione ti mette nella condizione ideale perché hai delle premesse vere e quindi anche la responsabilità di raccontare qualcosa che poi effettivamente comunichi ciò che il pubblico non sa. Contemporaneamente avere la libertà e non dover aderire a dei personaggi reali e dei fatti realmente accaduti ti permette di esprimerti e di scegliere delle strade anche inventate di sana pianta, senza rischiare di offendere qualcuno. Quasi liberatorio in un certo senso".
Diventare Eva Kofler nella serie Rai
Elena Radonicich interpreta Eva Kofler, la figlia dell'ex procuratore capo di Bolzano, Gerhard Kofler (Richard Sammel) e la moglie del rispettato prefetto della città, Andreas Müller (Giovanni Carta). Una famiglia benestante di lingua e cultura tedesca. "Eva deve sicuramente lavorare il triplo per farsi ascoltare, perché si è instradata e ha aderito alle aspettative che gli altri avevano su di lei. Le persone quanto più sono semplici da incasellare, quanto più ci tranquillizzano perché ne immaginiamo confini e comportamenti, pensiamo di poter prevedere le loro azioni e anche come muoverci intorno a loro. Soprattutto nei luoghi di potere, più vi si cresce, più vale questa teoria".
L'attrice però è anche convinta della sua caratterizzazione: "Eva ha scelto per mancanza di forza d'animo e sicuramente in parte perché è una donna e le donne sono state abituate nel corso dei secoli a ribellarsi con molta calma, quindi vince su di lei una cultura all'adeguarsi più che al ribellarsi purtroppo. Però è anche una sua scelta, io rivendico il principio di determinazione di ciascuno che comunque in un Paese libero come l'Italia può decidere di alzare la voce e di trovare il modo di farsi sentire. Lei sceglie deliberatamente, per sue debolezze che andiamo a raccontare nella serie - e sono tutt'altro che delle colpe sia chiaro - di rimanere in un cantuccio".
Questo però cambia quando conosce Paolo Costa (Matteo Martari), il poliziotto italiano caduto in disgrazia che come lei vuole dare la caccia al serial killer chiamato il Mostro di Bolzano, tornato a colpire dopo anni. "A quel punto Eva si trova nella posizione di dover escogitare un modo per liberarsi e per scoprire veramente la sua identità, per vivere una vita finalmente vicina al suo reale sentire e questo chiaramente genera delle conseguenze, che sono più pesanti di quelle che lei avrebbe voluto, però essere profondamente se stessi è un percorso che riguarda tutti e può fare anche molto male a sé e agli altri in modo incidentato, ma si tratta di una strada necessaria".
Brennero, la recensione: finalmente una serie crime nuda e cruda (targata Rai)
Dualismo ambientale e culturale
Al centro della fiction Rai c'è il tema del dualismo. Siamo a Bolzano, in una terra di confine e bilingue che vive di due identità. Proprio come i due protagonisti costretti a lavorare insieme in questa caccia all'uomo che è anche un gioco del gatto col topo. Dice la protagonista: "Il doppio linguistico in realtà è quello più superficiale, per come l'abbiamo affrontato noi, anche perché si parla in tedesco nella serie ma in maniera molto minoritaria rispetto all'italiano, dato che quest'ultimo è la lingua ufficiale. Eva ci tiene che si parli in italiano sul posto di lavoro. Perché bisogna farlo tra pubblici ufficiali, è la lingua corrente, in un certo senso parlare tedesco in quel contesto significa distinguersi e voler marcare una differenza, mentre tutto quello che ha a che vedere con il personaggio di Eva è provare a non creare queste differenze. Lei in qualche modo cerca di togliersi di dosso il pregiudizio e di partecipare attivamente alla sua eliminazione. Fa la sua parte".
Continua poi l'attrice: Detto ciò il dualismo per certi versi è la base di ogni racconto. In questo caso è esplicitato, è uno dei personaggi della storia, il contesto culturale nel quale si dipana, non poteva che essere lì e non si sarebbe potuta raccontare da nessun altra parte. Il motore di ogni narrazione è sempre il conflitto, il contrapporsi di due forze opposte. Quindi in un certo senso si cerca continuamente di mettersi nei panni di tutti e di far capire attraverso questo racconto quanto la verità dipenda moltissimo dal punto di vista da cui si guarda e quanto l'integrazione, affinché avvenga, necessiti dello sforzo di tutti per scrollarsi di dosso e sciogliere i nodi che soltanto i pregiudizi creano".
Una tematica estremamente e tristemente attuale, tra immigrazione e integrazione nel nostro Paese così come negli altri. Lo dice anche uno dei due registi, Giuseppe Bonito: "Il dualismo innanzitutto fonda quel territorio con due culture che per una contingenza storica si ritrovano a dover vivere insieme, in maniera civile e organizzata, ma allo stesso tempo non simbiotica. Mi viene da pensare all'acqua con l'olio. Stanno dentro allo stesso contenitore ma non si fondono mai insieme. Questo è qualcosa che stando lì ho imparato a non giudicare, si può partire da un dato di fatto ovvero due culture che non si sono veramente fuse tant'è che sono rimaste separate in maniera molto identitaria ma oramai (con)vivono lì da decenni".
Continua poi: "Allo stesso tempo capisco che è evidente che in una situazione come questa una cultura diventa egemone e c'è sempre qualcosa che si perde; una situazione destinata a rimanere in questa sorta di equilibrio un po' precario ma che regge. Paolo ed Eva sono due campioni in questo: lei è discendente di una famiglia tedesca che detiene il potere sul territorio, invece lui è puramente italiano. C'è un aspetto che li costringe a stare accanto l'uno accanto all'altra, una necessità che diventa la scoperta di qualcosa che li accomuna ovvero un dolore che li guida e supera anche gli steccati iniziali tra di loro, di un pregiudizio reciproco".
Brennero, un crime duro e puro
Veniamo all'estetica della serie, a cui entrambi i registi, Giuseppe Bonito e Davide Marengo non erano necessariamente abituati: vengono rispettivamente da Figli, L'arminuta, Bang Bang Baby il primo e da Sirene, Il cacciatore, Un'estate fa il secondo. Dice Bonito: "L'aspetto che mi piace di più di Brennero, proprio perché io vengo da mondi narrativi diversi, è che è un crime duro e puro, senza contaminazioni, ma come i paesaggi di quelle terre, è freddo ma ha un cuore caldo. Mi sono molto divertito a girare un crime ed è stata una scoperta anche per me (ride). Dentro il discorso di genere c'è un lavoro che ho fatto con gli attori su tematiche che vanno aldilà del crimine ed è questo l'elemento che mi ha intrigato di più di questo progetto".
Invece la sfida più grande? Nelle mie precedenti esperienze soprattutto cinematografiche mi sono fatto guidare da una sorta di istinto e trasporto, un po' inconsapevole e scriteriato (ride), mi piace camminare sul filo senza la rete di protezione. Grazie a questo serial ho scoperto ed imparato molto l'importanza della precisione, sulle informazioni e sui dati, quindi il racconto non mi ha mai posto - e questo penso possa valere anche per Davide Marengo che ha diretto le altre due puntate - grandi difficoltà, anzi dentro c'era tanta materia da affrontare. È stata per me un abituarmi all'attenzione per la comprensione dello spettatore, perché anche l'elemento percepito in modo più marginale può diventare fondamentale per la visione. Il crime è una buona scuola. Dovrebbe farla qualunque regista anche chi si occupa di commedia. Nella serialità c'è meno tempo rispetto al cinema, e ci sono più teste coinvolte con cui doversi confrontare, ma si ci abitua".
C'è un grande realismo che è l'altro punto di forza di Brennero. Dice Bonito: "Abbiamo definito insieme a Davide il look, senza però perderci troppo tempo. La natura dei paesaggi faceva già un buon lavoro di suo, e ci piaceva riferirci ad un certo tipo di serialità di matrice nordeuropea, però è qualcosa che abbiamo costruito strada facendo. Conoscevo pochissimo il Südtirol, c'ero stato pochissime volte, quindi è stata una scoperta ed in realtà anche grazie a questo incontro che si è definita la cifra estetica del serial. Qualcosa a cui io tengo molto, non mi piace preparare troppo sulla carta, ma sviluppare le cose mentre si realizzano".
Tutti pazzi per il crime
Il successo di Brennero non può che portare ad una domanda: perché i crime hanno tanto successo e c'è così tanto bisogno? Giuseppe Bonito ci risponde sia da spettatore che da regista. Come fruitore dice: "L'informazione si è molto narrativizzata, quando leggo la cosiddetta cronaca che accende i riflettori su un caso, mi accorgo che lo fa con stilemi presi dalla fiction. Non si sa più bene cosa nutre cosa, se la cronaca quando tratta un caso lo fa prendendo a prestito alcuni paradigmi di racconto dalla serialità o se invece è la narrazione che si nutre dalla realtà. Ma quale realtà?.
Dice poi: "Penso che c'è così abbondanza di informazione e di cronaca che non si ferma più soltanto ai normali lettori dei quotidiani e dei rotocalchi. Tra un po' anche nelle trasmissioni di cucina si parlerà di cronaca nera (ride), è diventato rumore di fondo. Curiosamente mi sembra si stiano invertendo i ruoli: la narrazione della cosiddetta fiction e di ciò che non è pura cronaca giornalistica spesso finisce ad affrontare i casi per dare delle coordinate allo spettatore. Casi che ci piace guardare da fuori, stando a distanza, per provare a comprendere meglio la realtà".
Da regista invece apprezza molto - ha scoperto guardandoli - quei crime che trascendono il genere stesso, che diventano una guida di racconto, scoprendo che sono solo un pretesto per non perdere di vista ciò che per lui è più importante ovvero l'aspetto umano.