Un western nostrano crepuscolare e oscuro, con tanto di riferimenti a Clint Eastwood tirato in ballo da una battuta stessa del film, un ranch, "un cavallo pazzo", un turbolento rapporto padre-figlio e una caduta all'imbrunire per colpa di una rete dei pastori. Nella recensione di Brado, in sala dal 20 ottobre, proveremo ad analizzare la terza regia di Kim Ross Stuart, ideale terzo capitolo di un trilogia iniziata con Anche libero va bene e proseguita con Tommaso, storie di cui tornano nomi dei personaggi, rimasti pressoché identici, interpreti (come nel caso di Kim Rossi Stuart e Barbora Bobulova) e intrecci, seppur Stuart ci tenga a rimanere ben distante da questa idea di saga esistenziale. Di certo c'è che Brado è uno dei migliori film italiani visti di recente e sorprende che un racconto di tale potenza e raffinatezza non sia riuscito a avere spazio in una "mostra d'arte cinematografica" come Venezia. La speranza è che trovi il suo riscatto in sala.
Il western esistenziale
Brado usa le regole del genere ma per indagare tematiche universali: il rapporto con il selvaggio, il libero arbitrio, la religione, la paternità. È un film di cadute, inciampi, ricuciture, di padri ombrosi e figli che non vogliono averci niente a che fare, ma che si ritrovano a perdonarli sempre, nella consapevolezza di dover fare sempre i conti con il fardello che gli hanno lasciato in eredità. Il legame padre-figlio è centrale, per Kim Rossi Stuart non è una novità avendone esplorato i confini già nei precedenti Anche libero va bene e Tommaso, di cui ritroviamo nomi e frammenti di storie: Renato (Rossi Stuart) è un uomo burbero e solitario, si è ritirato nello scalcinato ranch di famiglia dove dopo la separazione dalla moglie Stefania (ancora una volta interpretata da Barbora Bobulova) ha cresciuto i suoi due figli, Viola (Federica Pocaterra) e Tommaso, (Saul Nanni) che ormai adulti hanno preso le loro strade allontanandosene.
Oggi Renato si occupa a tempo pieno dei suoi cavalli dando anche qualche lezione di equitazione. La nuova ossessione è addestrare Trevor, un cavallo recalcitrante, e portarlo a vincere una competizione di cross-country: peccato che nel farlo si sia ammaccato qualche osso. Toccherà a Tommaso tornare in quel posto in mezzo al nulla per dargli una mano, ma anche per non dover più assistere alle sue folli sfide, che finirebbero per ucciderlo. Per i due "cowboy" sarà l'occasione di superare vecchi conflitti irrisolti e domare la rabbia e il rancore accumulati in anni di non detti, in cui Renato "ha fatto da padre e da madre". Una storia di liberazione dove l'ancora di salvezza avrà il volto di un'amazzone di poche parole, Anna (Viola Sofia Betti), di cui Tommaso si innamora.
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Il rapporto padre-figlio e il confronto con il selvaggio
Il film è tratto da uno dei racconti (La lotta) del libro Le guarigioni scritto dallo stesso attore-regista nel 2019; ed è innegabile che molto sia di ispirazione autobiografica. La dedica finale è a suo padre Giacomo scomparso nel 1994, dentro si agitano i fantasmi del passato in un microcosmo familiare sempre in bilico dove si avvicendano un padre spigoloso, "scassato" e sfatto dai continui corpo a corpo con i quadrupedi a cui ha dedicato una vita intera, un figlio schivo, diligente e cresciuto in fretta, educato da metodi fin troppo selvaggi, una ex moglie (che Renato non ha ancora perdonato) e il suo nuovo fidanzato (improbabile rocker), le due giovani donne, Anna e Rachele, che determineranno l'educazione sentimentale di Tommaso, e la sorella Viola, la grazia fatta persona nello sforzo conciliatore di farli riappacificare.
Il resto è dominato da atmosfere da far west americano, cavalli da sellare, stivali, speroni e frustini; il duello tra padre e figlio si consuma tra cavalcate nervose, sfuriate (forse un po' sopra le righe) e ricordi di un'infanzia non facile evocati dai flashback di Tommaso. Permane il confronto teso e costante con qualcosa di atavico e viscerale, in un paesaggio colto spesso nella penombra del crepuscolo o negli ultimi bagliori del buio, un attimo prima dell'alba, complice la fotografia di Matteo Cocco. Gli attori sono tutti convincenti dal giovanissimo Saul Nanni, composto nel dolore e misurato in ogni sguardo, a Viola Sofia Betti, interprete acerba alla sua prima esperienza, ma proprio per questo forse genuina e scaltra, una ventata di verità e freschezza. Un dramma familiare oltre che racconto di formazione declinato nelle forme del western contemporaneo, dove si impara a diventare adulti e guarire anche se a volte può significare incespicare nelle reti dei pastori.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Brado con un invito: correte a vedere questo film. Denso, stratificato, potente, il terzo lungometraggio di Kim Rossi Stuart è un’opera piena di rimandi, tra western esistenziale e viaggio di formazione. Al centro il rapporto turbolento tra un padre e suo figlio, sullo sfondo gli orizzonti lontani e il rumore delle cavalcate del vecchio far west, solo che non siamo in America, ma in un ranch scalcinato del centro Italia.
Perché ci piace
- Western e dramma familiare insieme per raccontare il rapporto padre-figlio, il confronto con l’atavico e il selvaggio, la religione, il libero arbitrio.
- Un cast di interpreti convincenti: non si farà fatica a credere ad ogni loro gesto o parola.
- Le atmosfere da vecchio far west, i paesaggi colti nella penombra dell’imbrunire.
Cosa non va
- Qualche lungaggine o metafora di troppo interrompe spesso il ritmo del racconto, che nella seconda parte riacquista vitalità.