C'è un grande equivoco attorno al film di Andrew Dominik, presentato in concorso a Venezia 79, sulla vita di Marilyn Monroe: non si tratta di un vero biopic. O almeno non di un film biografico classico. La recensione di Blonde non può che partire da questo chiarimento. Già nell'omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, da cui l'opera è tratta, la vita della più famosa star di Hollywood è rielaborata, ricucita e romanzata per diventare qualcosa di più. Non a caso il titolo è Blonde, non Marilyn. O Monroe. Né Norma Jean. L'attrice di A qualcuno piace caldo qui diventa infatti un simbolo: è "la bionda" per eccellenza, quell'idea di bellezza femminile considerata, almeno in Occidente, perfetta. E a cui tutte e tutti dovrebbero aspirare.
In quanto ideale estetico e di desiderio, "la bionda" non è una persona. Ed è così che Andrew Dominik tratta Marilyn Monroe per 166 minuti, facendola diventare un fantasma e un corpo. Il fantasma è quello che vede riflesso nello specchio Norma Jeane Mortenson, bambina non voluta né dal padre, mai visto, né dalla madre, che attenta alla sua vita e le lascia in eredità soltanto insicurezze e traumi. Marilyn è tutto ciò che Norma Jean non potrebbe mai essere: amata, famosa, ricca. Eppure Miss Monroe è anche una presenza inquietante, un'entità che esiste soltanto sullo schermo e davanti al cerchio di luce che ne illumina il viso. Un viso diventato inconfondibile: sopracciglia ad ali di gabbiano, labbra rosse, neo e pettinatura biondissima.
Il corpo invece è quello che, anche 60 anni dopo la morte di Marilyn Monroe, continuiamo a guardare, soppesare, valutare. In Blonde tutti vogliono un pezzo della diva. Anche noi spettatori. È questa l'intuizione geniale e orrorifica di Dominik: l'attrice Ana de Armas, che è come se riportasse in vita Marilyn, viene continuamente presa, trascinata, toccata e stretta in bustini da altri. Quasi come se non avesse una sua volontà. In ogni occasione in cui deve decidere del proprio corpo, che si tratti di un costume di scena, di un rapporto sessuale o addirittura di un aborto, la scelta la fa qualcun altro. Blonde diventa quindi un grande e difficile manifesto politico, che punta chirurgicamente a far sentire in colpa lo spettatore. Siamo tutti complici, più o meno inconsapevolmente, della lotta costante operata a spese (e sul) corpo delle donne.
Gli uomini preferiscono le bionde, ma non le amano
Ci ha provato tutta la vita Marilyn a non finire etichettata. Non voleva essere l'orfana, la pazza, il sex symbol senza cervello. Si è quindi reinventata, creando, come si dice in Tutto su mia madre di Pedro Almodovar, "la versione migliore di se stessa". Lo ha detto: "Voglio solo essere meravigliosa". E meravigliosa lo è stata davvero: come illumina lo schermo lei pochi. Il mondo però non era pronto allora (e tristemente nemmeno oggi) a una donna come lei. Per molti non si può essere contemporaneamente belle, seducenti, brave, intelligenti e simpatiche. E magari voler anche decidere della propria carriera e delle proprie gravidanze.
Tutti gli uomini che la protagonista incontra nel film non sanno come gestirla e finiscono per diventare dei mostri: prima la sminuiscono trattandola come una decerebrata, poi usano la violenza. Perfino Arthur Miller (Adrien Brody), che in fondo è quello che ne esce meglio, tradisce la sua fiducia, volendone prendere un pezzo a suo vantaggio, anche se sotto forma di parole. Che si tratti di intellettuali, produttori cinematografici, sportivi o presidenti (J.F. Kennedy, intoccabile per gli Americani, è quello che fa la figura peggiore), tutti gli uomini in Blonde sono delle creature di cui avere paura, abusanti, senza nessun amore per Marilyn e per le donne. Le vogliono, le usano, le sottomettono, ma non le amano.
La cosa più triste è che nemmeno le donne amano davvero Marilyn: le uniche due figure materne che vediamo nel film la tradiscono, le altre sono soltanto rivali o invidiose. Quando la protagonista, sempre più provata dalla depressione, prova a confidarsi con le sue costumiste, la fanno anche sentire in colpa: tutte vorrebbero essere al suo posto. Come osa anche solo lamentarsi? Purtroppo, ancora oggi, qualsiasi sia la scelta che una donna fa, c'è sempre qualcuno pronto a criticarla, che si sente in dovere di dire dove abbia sbagliato, o cosa avrebbe dovuto fare. Un incubo. Che Andrew Dominik mette in scena come in un film horror, con risate sinistre e bocche che diventano buchi neri.
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Ana de Armas e il lavoro sull'icona Marilyn Monroe
Blonde alterna scene in bianco e nero con scene a colori. Inizialmente sembra che le parti in bianco e nero siano quelle dedicate a Marilyn, le altre invece a Norma Jean. In realtà Andrew Dominik ha fatto un lavoro molto più sottile: visto che nella mente di ognuno di noi Monroe è un'immagine, che cambia a seconda di chi la guarda sullo schermo, il regista ha preso le fotografie più famose della diva e le ha trasformate in sequenze animate. Quando la protagonista esce per la prima volta con Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), la scena è pensata come se un suo famoso ritratto in bianco e nero prendesse vita. E così l'ingresso nella casa insieme ad Arthur Miller, portato sullo schermo rielaborando una delle loro foto più famose, che li ritrae accanto a una staccionata in mezzo a un bosco. Un lavoro certosino, che sottolinea ancora di più come Marilyn Monroe sia ormai proprietà dell'immaginario collettivo.
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Chiamata a un confronto difficilissimo, Ana de Armas in Blonde è al ruolo della vita. Dopo aver dimostrato di essere una perfetta eroina action in No Time To Die e un'interprete in grado di passare con disinvoltura dai toni drammatici a quelli comici (per Knives Out ha anche ricevuto una candidatura ai Golden Globe), qui compie quasi una magia. Sembra davvero di vedere Marilyn Monroe. Non tanto per la somiglianza fisica, che comunque c'è, ma sopratutto per il lavoro fatto sui piccoli gesti, sulla voce, sulle espressioni. Quando è Norma Jean de Armas ha la voce rotta, disperata, quando è Marilyn sembra una bambina, che pronuncia in modo infantile quel "daddy" che cerca in ogni uomo senza mai trovarlo. E fa gelare il sangue. Una prova non facile, come non facile è il film, destinato a dividere e a far discutere ferocemente. Cosa di cui Dominik è stato consapevole fin dall'inizio, non volendo rinunciare a nulla (nemmeno a scelte discutibili come le immagini reiterate di un feto con cui la protagonista parla). Un film senza compromessi, controverso, in alcune scene quasi estremo, che chiama in causa lo spettatore. Finalmente.
Conclusioni
Come scritto nella recensione di Blonde, il film di Andrew Dominik, esattamente come il romanzo di Joyce Carol Oates a cui si ispira, non è un classico biopic sulla vita di Marilyn Monroe. La storia della più famosa star di Hollywood viene reinventata e romanzata per parlare di altro: di come il corpo delle donne sia un qualcosa su cui tutti si sentono in diritto di decidere, criticare, possedere, abusare. Ana de Armas nel doppio ruolo di Norma Jean e Marilyn è straordinaria: sembra davvero di rivedere la vera Monroe sullo schermo. Un film difficile, controverso, che chiama in causa lo spettatore facendolo sentire in colpa perché complice di questo voyeurismo che continua anche 60 anni dopo la morte della star. Da non perdere.
Perché ci piace
- L'interpretazione di Ana de Armas.
- L'uso che Andrew Dominik fa delle foto più iconiche di Marilyn Monroe, trasformandole nelle scene del film.
- L'aver trasformato quello che in apparenza sembra un biopic in un film horror.
Cosa non va
- Ci sono diverse scene forti in Blonde, che potrebbero dare fastidio a un pubblico particolarmente sensibile.
- Chi si aspetta un classico film autobiografico rimarrà spiazzato.