Tra i più grandi punti di forza della Festa del Cinema di Roma, c'è da sempre la possibilità offerta al pubblico di incontrare importanti cineasti provenienti da tutto il mondo in un'atmosfera cordiale e informale. Ieri è stata la volta di Bernardo Bertolucci, universalmente riconosciuto come uno dei più significativi registi del panorama internazionale del secondo Novecento. Con le consuete disponibilità e finezza, l'autore di film quali Il conformista, Ultimo tango a Parigi, Novecento, L'ultimo imperatore, Piccolo Buddha e The dreamers - I sognatori, solo per citarne alcuni, si è aperto ai presenti parlando del suo lavoro, della sua visione del cinema e raccontando una serie di aneddoti molto interessanti, talora anche intimi, legati al rapporto, tra gli altri, con Jean-Luc Godard, Marlon Brando e il padre Attilio Bertolucci, il grande poeta e intellettuale italiano. L'incontro, scandito dalla proiezione di sei sequenze cinematografiche tratte dalla filmografia del maestro italiano, è stato moderato dal direttore artistico della Festa Antonio Monda e dal selezionatore Richard Peña.
La prima parte della carriera: le Nouvelle Vague internazionali e Il conformista
Ha iniziato a fare cinema in un momento in cui in Europa e nel resto del mondo si stavano affermando numerosi movimenti che hanno innovato il linguaggio della settima arte. Cosa ricorda di quel periodo?
Erano gli anni Sessanta, c'era la Nouvelle Vague francese, il Cinema Novo brasiliano e il cinema polacco di Forman e gli altri. Era un momento di grande passione e il cinema alla fine ha dovuto accettare quello che stava accadendo fuori dai teatri di posa e cioè nelle strade, dove il cinema non andava mai. Io avevo un amore per Godard così aggressivo, in fondo, che avrei davvero picchiato qualcuno a cui non piaceva Questa è la mia vita o Fino all'ultimo respiro. Sono serio. Dopo aver girato i miei primi tre film, alla fine degli anni Sessanta ho realizzato Partner, che era un film un po' folle, e in seguito un piccolo film nella bassa parmense che si chiamava Strategia del ragno, che non è attualmente in circolazione e non lo si può vedere. In quell'estate del 1969 secondo me eravamo un po' tutti in stato di grazia e di conseguenza ne è uscito fuori un film fatto con molta grazia. Mentre stavo ancora in moviola per Strategia del ragno, mi arrivò la luce verde per un film che stavo preparando: Il conformista, tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia.
A proposito de Il conformista, il romanzo finisce con il protagonista Marcello che viene ucciso. Tutto questo nel film non c'è. Come mai tale cambiamento?
Nel libro di Moravia il finale era per me inaccettabile, in quanto il protagonista e la famiglia, scappati da Roma dopo l'8 settembre del 1943, vengono intercettati e uccisi dagli Alleati. A me sembrava che questa conclusione avesse un'eccessiva carica simbolica, fosse un qualcosa che arrivasse dall'alto. E allora decisi di chiudere il film con un primo piano di Jean-Louis Trintignant, che improvvisamente forse capisce tutta quella che è stata la sua storia, la sua vita, prendendo coscienza di aver deciso infine di conformarsi a tutti gli altri per superare l'ansia e la paura della propria diversità. Invece di questo finale dove il protagonista e i familiari andavano incontro a una sorta di punizione divina, la mia punizione consiste nel primo piano di un Trintignant che probabilmente prende per la prima volta coscienza di sé.
Il rapporto con Godard e il Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi
C'è una leggenda secondo la quale l'indirizzo e il numero di telefono del professore in Francia ne Il conformista in realtà sarebbero quelli di Godard. Corrisponde a verità? Il personaggio in questione, tra l'altro, nel film viene ucciso...
Assolutamente sì. Per Godard avevo avuto un innamoramento vero. Con Jean-Luc eravamo molto vicini prima del 1968, poi in quell'anno ci dividemmo un po' perché lui era legato alla Guardia rossa maoista e io invece ero un tetragono comunista vicino al partito. Su questo un giorno avemmo una discussione forte e poi, quando Il conformista uscì in Francia, io lo invitai ad andare a vedere il mio film alla prima. Lui mi diede un appuntamento verso mezzanotte, a seguito della proiezione, in un drugstore. Si presentò senza dirmi nulla e mi diede un foglietto, per poi andarsene via immediatamente. Quando lo aprii, scoprii che c'era un ritratto di Mao disegnato a mano con scritto sotto con un pennarello rosso: "Bisogna lottare contro l'egoismo e l'individualismo". Mi arrabbiai al punto che strappai immediatamente il bigliettino. Sarebbe bello però oggi avere ancora quel foglietto di Godard.
Come è nata l'idea di Ultimo tango a Parigi e come si è sviluppata la produzione?
Tutto ha avuto inizio con Dan Talbot, un piccolo distributore newyorkese mio amico, che nel 1970 mi chiese di dargli una storia perché voleva produrmi un film. Io ci pensai un po' e poi gli consegnai una paginetta con la storia di un uomo e una donna che si incontravano in un appartamento vuoto che non era di nessuno dei due, solo per fare l'amore. L'uno non sapeva come si chiamava l'altro ed entrambi non volevano saperlo. Si trattava di un modo per distaccarsi dalla loro identità sociale. Da questa prima idea è venuta poi la storia di Ultimo tango a Parigi. Essendo il film ambientato nella capitale francese, all'inizio nel ruolo del protagonista avrei voluto uno dei due attori transalpini del momento: Jean-Paul Belmondo o Alain Delon. Belmondo mi ricevette dopo aver letto la sceneggiatura e quasi mi cacciò dall'ufficio dicendomi che si trattava di un film osceno. Ci rimasi davvero male perché stimavo molto Belmondo. Alain Delon invece mi disse che gli piaceva molto l'idea del film ma che avrebbe voluto essere il produttore. Non se ne fece nulla e fu solo dopo questi rifiuti che arrivò Brando.
Cosa ci può dire del suo rapporto e della sua esperienza con il grande attore americano?
Ci incontrammo per la prima volta in un albergo parigino, l'Hotel Raphael, e in due minuti gli raccontai in un inglese pessimo cos'era la storia del film. Io ero nervosissimo e mi accorsi che non mi guardava mai negli occhi. Quando gli chiesi il motivo di questo suo atteggiamento mi rispose che stava cercando di capire quando avrei smesso di muovere in continuazione il mio piede. Mi ricordo che portai Brando e altri collaboratori del film a una grande mostra parigina dedicata a Francis Bacon e dissi a Marlon che avrei voluto che i suoi primi piani ricordassero la disperazione e la ferocia dei ritratti di Bacon, con quella loro forza e immediatezza. Lui non conosceva l'artista irlandese ma rimase molto impressionato dalla sua arte. Mi sembra che da questo punto di vista abbia fatto un eccellente lavoro, come in realtà anche da altri punti di vista. Brando ha dato corpo e peso a un personaggio che in sceneggiatura in pratica non esisteva. Fra l'altro, bisogna dire che all'epoca era l'uomo più bello del mondo. Nessuno aveva problemi a riconoscerlo, né gli uomini né le donne. Non è mai più esistito uno così e non credo esisterà in futuro.
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L'ultimo imperatore e Novecento
Cosa l'ha convinta a realizzare L'ultimo imperatore? Perché un regista di Parma decide di raccontare la storia dell'ultimo imperatore cinese?
Beh, intanto la prima cosa di cui mi accorsi arrivato in Cina è che il giallo Parma è identico al giallo imperiale. Al di là delle battute, avevo letto l'autobiografia di Pu Yi Sono stato imperatore, che mi aveva appassionato moltissimo. Così siamo partiti per Pechino, senza sapere nulla, con lo sceneggiatore Mark Peploe e altri collaboratori. Era la Cina del 1984 ed era ancora tutto molto come quando oggi nei film americani vogliono far vedere la Cina di Mao. La Cina era quella ancora prima dell'apertura di cui ci saremmo resi conto già due anni dopo, nel 1986, girando il film. Una volta stato in Cina, era impossibile non avere voglia di girarci un film. Era tutto estremamente affascinante e stimolante.
Che cosa l'ha spinta, invece, a girare un film ambizioso e meraviglioso come Novecento?
Novecento era un film che ho fatto perché volevo in qualche modo tornare nella terra di mio padre, che mi ha insegnato tutto. Mi ha insegnato la poesia perché era un grande poeta, mi ha insegnato il cinema portandomi spesso in sala dalla campagna in città e facendomi conoscere il più grande critico cinematografico della Gazzetta di Parma tra il 1947 e il 1950. Mio padre era anche un grande ipocondriaco, chiamava i medici alle 3 di notte, riuscendo a farli venire. È stato per me una scuola di ipocondria non indifferente. Forse mi sono liberato un po' di questa continua ossessione del corpo solo con la sua morte. In ogni caso, Novecento c'è perché io dovevo in qualche modo fare un omaggio alla sua poesia. Nel poema La camera da letto ci sono dei momenti in cui si parla degli anni del primo Novecento nella campagna di Parma con lo sciopero dei braccianti e le mucche nelle stalle piene di latte che non posso essere munte da nessuno.
Questioni di stile e considerazione sul digitale
Il suo cinema è sempre stato caratterizzato da continui, affascinanti e spesso anche lunghi movimenti della macchina da presa...
Negli anni Sessanta c'erano due direzioni del cinema che amavo. Da una parte Bresson e Ozu, con il loro linguaggio molto rigoroso e composto da piani fissi, dall'altra Mizoguchi, Max Ophüls o Stanley Donen, la cui macchina da presa invece si muoveva molto. Devo dire in effetti che anch'io, come i tre autori appena citati, ho sempre sofferto di questa sindrome: non riesco a stare con la macchina da presa ferma. I miei movimenti non sono molto spettacolari, in diverse occasioni si tratta anche solo di piccoli movimenti di aggiustamento, ma sono continui. Ho sempre appartenuto a quello che mi sembrava un cinema forse non severo ed ascetico, ma in qualche modo generoso. Ecco, con i loro movimenti di macchina è come se Ophüls e Mizoguchi fossero in grado di raccogliere delle parti di pubblico dentro il movimento. Pensate che bello: qualcuno che vi fa vedere un'inquadratura che riesce ad uscire dallo schermo e a mettervi come dentro di sé. Questa cosa mi ha sempre affascinato molto.
Qual è il suo rapporto con le nuove tecnologie digitali?
Per Io e te, il mio ultimo film di quattro anni fa, ho fatto dei provini in digitale. Non c'era quel minimo di effetto flou o di fuori fuoco che c'è sempre nella pellicola e che fa parte della natura dell'immagine di celluloide. Il digitale mi appariva come ingessato e così decisi di utilizzare la pellicola. Adesso invece se dovessi fare qualsiasi cosa userei il digitale, perché è un mondo affascinante ancora da esplorare. Siamo abituati al fatto che la pellicola ricorda ancora in qualche modo la pittura impressionista, che non è mai proprio completamente a fuoco. Con il digitale è come bruciare tutto l'Impressionismo, perché è davvero troppo definito. Chissà però che, andando un po' avanti con gli anni, questa altissima definizione non riesca a permetterci di leggere più a fondo dentro i personaggi.