Esaminare i motivi che spingono un regista a lavorare ad un sequel di un proprio lavoro è molto stimolante, dal momento che si tratta di qualcosa di delicato e che spesso racchiude più significati di quelli che ci si potrebbe aspettare. Fare un sequel per un regista può voler dire non solo dare continuità ad un testo audiovisivo, ma anche rilanciarlo o calibrarlo o stravolgerlo o, addirittura, disconoscerlo, specialmente quando va a rimettere mano a qualcosa lasciato in sordina per diverso tempo. Il caso più affascinante da analizzare tra tutti è però, senza dubbio, quello che implica una nuova misurazione per l'autore stesso, che compie per mezzo di un titolo significativo sia in relazione al pubblico e sia alla sua idea di cinema in generale. Un po' com'è accaduto per Tim Burton con Beetlejuice Beetlejuice.
Il film di apertura di Venezia 81 e sequel del cult del 1988 rappresentava infatti una prova estremamente delicata per il regista di Burbank, dal momento che dalla sua riuscita più o meno felice dipendeva non solo una certa spendibilità di un autore che nel corso degli anni Duemila ha visto un'inesorabile flessione, ma anche una sua ricollocazione artistica. Forse anche qualcosina di più ad essere sinceri. Qualcosa di più viscerale, che riguarda la validità cinematografica burtoniana nel panorama moderno.
Per Burton affrontare di nuovo il mondo di Betelgeuse significava tornare, 30 anni dopo, a spulciare le radici del suo pensiero creativo ed esistenziale dal momento che la pellicola originale racchiudeva i nuclei semantici di ciò che poi è divenuto il suo percorso. Per il cineasta questo ritorno rappresenta una specie di seconda cerimonia di nozze con il suo mondo interiore, dal quale ha tirato fuori tutta la ricchezza che lo ha reso ciò che è divenuto. Un gesto che poteva apparire disperato e invece è stato consapevolmente coraggioso.
Nella buona e nella cattiva sorte
Il copione di Beetlejuice - Spiritello porcello (le traduzioni dei titoli in italiano a volte lasciano a desiderare, lo sappiamo) "inciampò", per così dire, nella vita di Tim Burton, dato che all'epoca il regista era determinato a realizzare il suo Batman dopo l'endorsement ricevuto dalla Warner Bros. in seguito al successo della sua prima pellicola, Pee-wee's Big Adventure. Furono proprio i ritardi della produzione del film ispirato all'uomo pipistrello che portarono Burton a valutare altri copioni, tra i quali catturò la sua attenzione quello scritto da Michael McDowell, sceneggiatore che aveva già collaborato con il regista. Il sodalizio tra i due si interruppe però poco dopo durante le modifiche dello script, ma questa è un'altra storia.
Il punto è che Burton osò già all'epoca, dato che decise di deviare da un percorso stabilito per mettere in scena qualcosa di estremamente rischioso vista la natura anarchica di un progetto che però, se da una parte esigeva una grande sapienza e personalità, dall'altra permetteva all'autore di esprimersi in un modo piuttosto libero. Inaspettatamente libero nella fattispecie. Forse fu una necessità per il giovane regista, un richiamo a cui non poté resistere. Egli si identificò così tanto nella storia e nella protagonista della storia da decidere di trasmettere attraverso di lei tutte le sue ossessioni e le sue insicurezze, svelandosi così a pieno. Fece un patto con se stesso e lo fece anche con il suo pubblico.
Il film fu un grande successo e lanciò l'inconfondibile impronta artistica di Tim Burton nel punto più alto dell'immaginario cinematografico dell'epoca, garantendogli una nicchia d'eccezione da cui potersi muovere in qualsiasi direzione avesse voluto. Una vera e propria data zero. Non a caso Beetlejuice - Spiritello porcello è, ad oggi, ancora una delle migliori espressioni della firma burtoniana, una delle più ricche, eccentriche e significative. Ricominciare da lì in un momento di grande crisi poteva voler dire trovare una mossa vincente per rimettersi in gioco oppure accomiatarsi acquisendo la consapevolezza della fine di un suo certo spirito. Rinnovare i voti, d'altronde, è una cosa che si fa nella buona e nella cattiva sorte.
Beetlejuice Beetlejuice, le opinioni della redazione sul film di Tim Burton
Beetlejuice Beetlejuice, questo secondo matrimonio s'aveva da fare
Beetlejuice Beetlejuice è un secondo matrimonio che Burton fa con se stesso perché recupera quell'idea straordinaria di creare una storia d'amore, possibile solo grazie al cinema, tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, ribaltandone però i ruoli. I defunti sono pieni di vita, mentre coloro che respirano sono invece già defunti senza rendersene conto. Una visione da fiaba dark della realtà valida negli anni '80 e valida ancora di più oggi, dato che ancora in numero maggiore rispetto al passato, le persone diventano con troppa facilità consumatori di vite altrui o recipienti di qualcosa voluto da sconosciuti. Esseri svuotati di un proprio mondo interiore a causa di una società sanguisuga.
Una visione che solo un outsider com'era Burton da giovane e com'è tutt'ora può avere. La visione di un qualcuno che si è sempre sentito vivo e a suo agio solo in un mondo underground che la maggioranza ha invece costantemente scartato, magari anche in malo modo. Il cult del 1988 era la confessione di una interpretazione della realtà al contrario che con il sequel il regista riafferma con forza, decidendo di scrivere una nuova versione della sua personalissima lettera a cuore aperto per fare un sunto del suo immaginario tale da potervi racchiudere, ancora una volta, le sue ossessioni e delle sue insicurezze. Anche a sessant'anni è lecito averle, del resto.
Ecco allora perché questo Beetlejuice Beetlejuice, ovvero questo secondo matrimonio, era non solo auspicabile, ma anche necessario per Tim, il quale ha avuto così l'opportunità di dare prova a se stesso di come la sua idea del cinema sia ancora attuale. Oltre a regalare al pubblico un nuovo capitolo di una storia d'amore tutt'ora viva (quindi morta) con uno dei registi che ha permesso a generazioni intere di sentirsi comprese anche se definite weirdo da tutti gli altri, solo perché avevano una visione del mondo al contrario.