Il film Barbie ci apre le porte di BarbieLand. Parametri da rispettare, regole da seguire: bisogna essere abbastanza forti, abbastanza muscolosi, abbastanza ricchi, abbastanza potenti, abbastanza virili... insomma, abbastanza "maschi" per essere "uomini". Per fortuna la pellicola di Greta Gerwig ci spiega che è esattamente il contrario. Pensiamo al percorso di Ken (Ryan Gosling), il più lampante: Ken ha bisogno di sapere di non essere un accessorio di Barbie (Margot Robbie). Simbolicamente, all'interno del film, ricopre il ruolo della donna di oggi, intenta a cercare se stessa nonostante il riferimento maschile sia la prima grande forza di abbattimento.
Ken, tutti i Ken, assieme ad Allan (Michael Cera), ad Aaron (Connor Swindells) e ad altre figure bistrattate e ridicolizzate, sono le vittime di una mascolinità tossica, che alimenta il patriarcato anche quando nel film non viene nominato affatto. Avete presente l'espressione "devi essere un uomo vero"? è adorabile. Ma non di certo nell'accezione odierna. È una frase meravigliosa se vista come esortazione ad essere se stessi. Essere uomo, umano, sincero con gli altri e fedele a se stesso. Vero, "insomma". Conscio di poter piangere, di poter esternare sentimenti forti e di avere anche interessi diversi dalla palestra e dal calcio. O dalla spiaggia, come per Ken.
Analizziamo quindi l'arco di trasformazione dei personaggi maschili di Barbie, che sono stereotipati, proprio come quelli femminili, per uno scopo preciso: far capire a tutto il pubblico, anche quello maschile, che a volte fa fatica a identificarsi con un personaggio femminile (succede, ah se succede purtroppo), che "patriarcato" e "matriarcato" sono sbagliati, perché dove c'è uno squilibrio di potere c'è sofferenza per tutti.
Barbie: la videorecensione del film
Barbie: Ken
È indicativo il fatto che Ken senta una forte vertigine proprio quando confessa a Barbie e a se stesso di sentirsi inferiore, come un'enorme presa di coscienza che lo costringe ad aggrapparsi a qualcosa di solido, reale. Apre gli occhi sulla sua condizione di instabilità. Abbracciato a una colonna, tremante, Ken ha una improvvisa percezione del vuoto (che vive interiormente e che percepisce anche all'esterno) proprio mentre si dà dello stupido e prosegue una litania sul suo modo di guardarsi. Lui, che ha sempre desiderato gli occhi di Barbie addosso a sé, per la prima volta sente l'esigenza di un altro sguardo che possa valorizzarlo: quello di se stesso.
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Il riconoscimento di quel "Ken sono io" è rivelatorio: non più "Barbie e Ken", non più tanti Ken uguali l'uno all'altro, ma molti Ken speciali perché diversi: ognuno è un Ken, a suo modo, con accettazione e consapevolezza, senza competizione o ruoli, senza sguardi da anelare, consci di poter essere loro stessi a prescindere dalle loro relazioni sociali o sentimentali. Anche gli atti di gentilezza tra i Ken sono un risvolto interessante: finalmente rispetto ed empatia diventano sentimenti concepibili all'interno del rapporto tra uomini in Barbieland. Rivalutare il Ken al proprio fianco diventa possibile rivalutando prima il Ken più importante di tutti: quello da cui voler essere guardato sempre, allo specchio, sorridendosi, tutti i giorni.
Barbie: chi è Allan
Eppure non è solo Ken a compiere un viaggio alla scoperta di se stesso. Un personaggio in particolare del film rapisce le nostre attenzioni più degli altri, perché è diverso, complesso, intenso. Non è uno dei tanti "fabbricati in serie". È proprio il caso di dirlo. Stiamo parlando di Allan, l'accessorio dell'accessorio. Se Ken non deve essere l'accessorio di Barbie, Allan non deve essere l'accessorio di Ken, non trovate?
Ken ha due obiettivi nella sua eterna vita: quello di fabbrica (per cui è stato disegnato e distribuito, ovvero essere "Ken spiaggia") e l'obiettivo relazionale, ossia essere guardato da Barbie. Ecco qui. Finito. Non ha altri stimoli. Ogni tanto anima il loro quieto vivere qualche scaramuccia tra i Ken, per essere guardati da Barbie varie, ma nulla di serio che vada a inficiare la convivenza tra loro, seppure senza stima reciproca fino alla fine. Un'esistenza semplice, che non lascia dubbi. Frustrante, ma dalle linee chiare e precise.
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Allan invece non ha obiettivi nella sua esistenza. Se tutti gli altri vengono progettati per uno scopo preciso da adempiere una volta fabbricato, lui resta indietro. Viene distribuito con la frase "He is Ken's Buddy". Letteralmente, "lui è l'amico di Ken". Basta. Questa è la sua funzione, il motivo per cui viene concepito. Sulla sua confezione non manca quello che diventa uno smacco finale: "Gli stanno tutti i vestiti di Ken!". Beh, certo, non ha un obiettivo di vita, figuriamoci un armadio tutto suo.
Esiste per essere "l'amico del protagonista". Ma che succede quando del protagonista ne abbiamo diverse versioni? Che succede se, come nel film, tutti gli uomini sono Ken e tutti i Ken sono protagonisti delle loro funzioni in base al motivo per cui sono stati concepiti e, anzi, gareggiano anche per essere "il Ken più guardato dalle Barbie"? C'è posto per un ulteriore personaggio? Per questo i suoi tentativi di fuga e il modo in cui supporta le nostre eroine lo rendono il vero eroe del film. E quando, verso il finale, Ken dice a Barbie "io non so chi sono senza di te", in lacrime, pensiamo a quel personaggio che non sarebbe potuto esistere senza Ken (che a sua volta non sarebbe potuto esistere senza Barbie, un bell'incastro di esistenze dipendenti le une dalle altre).
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Non esiste da solo Allan. Eppure è unico, come la sua stessa presentazione afferma: "C'è solo un Allan" È stato creato in funzione di Ken. Se è vero che gran parte del film verte sulla difficoltà di concepire il limitante "Barbie e Ken", pensate a "Ken e Allan". Accessorio dell'accessorio, zittito da tutti e senza un'apparente personalità, Allan da solo sconfigge i muratori alla "dogana" di Barbieland e racconta di quanti Allan siano già scappati silenziosamente rifacendosi una vita nel mondo reale (alcuni diventando importanti, come gli NSYNC!)
Per questo diventa un importante supporto per le nostre protagoniste. L'unicità di Alan gli permette di avere gli "anticorpi al patriarcato" e la tendenza alla vita e alla fuga, perché è già morte quella che prova quotidianamente con l'estraniamento. E infatti ha una personalità a parte. È già un essere umano. È uno di noi e fa quello che facciamo noi: si sente sperduto e senza una funzione specifica. Nessuno gli ha specificato la sua direzione e tenta di cercarla da solo tutti i giorni. Provando a salutare le Barbie per essere guardato (e non provando visibilmente alcun sollievo da ciò, perché non è tra le sue priorità, dato che non è Ken), alla ricerca di uno scopo senza riuscirci, provando a inserirsi in ambienti, conversazioni e dinamiche da cui è escluso e da cui si estranea perché, in realtà, non prova affatto interesse per nulla di ciò che già conosce. Riguardate il film Barbie osservando solo Allan. Noterete una storia ancora più ricca di particolari e sfumature.
Aaron e il suo "essere donna" in Barbie
In Barbie La discriminazione non è soltanto sessuale, ma strettamente legata al ruolo e al potere del singolo individuo. Basti pensare alle mansioni che vengono riservate alle Barbie in Barbieland e quelle che invece svolge Ken: chi è oggettificato nel meraviglioso "mondo della perfezione", se non i maschietti visti come accessori? È ovvio che tutto questo si traduce in una enorme allegoria del mondo reale, quello in cui non avere potere non ti rende degno/a di attenzioni a prescindere dal tuo sesso, ma in cui comunque essere una donna è un'aggravante molto potente.
Ce lo fa capire l'impacciato e sensibile Aaron, dipendente della Mattel, uomo che risponde al senso di dovere anche quando viene trattato male. E che riconosce la sua inferiorità rispetto agli altri uomini in modo goffo, ma indicativo. Quando Barbie entra nella stanza delle conferenze dell'amministrazione Mattel, ad Aaron non è permesso alzarsi. Viene fatto sedere con un gesto veloce e quasi impercettibile. Ed è proprio dal suo stretto posto poco illuminato, in basso rispetto agli altri, che risponde candidamente a Barbie, scettica riguardo l'assenza di donne tra gli incarichi più importanti di Mattel: "Io sono un uomo senza potere, questo fa di me una donna?"
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Una frase che arriva come una pugnalata in un fianco. Fa sorridere, certo, di quel sorriso potente ma amaro, che solo la satira sa regalare. Eppure così efficace da far rabbrividire. Perfettamente coerente con il suo personaggio, Aaron, durante il film, si lascia andare a manifestazioni di affetto, abbracci, momenti di debolezza e di imbarazzo, spesso respinto dalla comunità in cui si ritrova (esempio perfetto di mascolinità tossica che rifiuta la sensibilità e la gentilezza). Perché è un essere poco potente a provare quei sentimenti. E poi, perché è un uomo che manifesta emozioni: inaccettabile per chi crede che le donne siano gli unici esseri viventi a manifestarle e che debbano solo mettersi con il loro Ken di turno per essere felici.
Per tutto il film, qualsiasi cosa Aaron dica, non ha valore per il CEO Mattel, interpretato da Will Ferrell (anche se alla fine ha sempre ragione proprio lui, dal "basso" del suo poco potere): non è in giacca e cravatta, non ha un ruolo importante, non ha l'ufficio ai piani alti dell'edificio dell'azienda. Quindi, anche se ha scoperto lui il problema sin da subito, non ha voce in capitolo. Infatti, Aaron non può alzarsi quando si alzano tutti. Perché lui non è valutato come gli altri. Ed è per questo che viene associato alla figura di una donna. Fa ancora più male detto così, vero?
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"Non sei la tua ragazza, non sei la tua casa, non sei la tua pelliccia, non sei neanche la spiaggia. Tutte le cose che pensavi che ti definissero non sono davvero te."
Barbie parla a Ken, ma in realtà parla a se stessa. Innalza la figura di Ken, lo ascolta, lo consola e lo aiuta a scoprire il suo valore. Lei nasce come donna, ricca di sfumature e particolarità, lui rinasce uomo, finalmente in sé e fedele a se stesso. In un mondo di etichette e ruoli precisi, Barbie si differenzia come leader dal CEO della Mattel, il quale non vede in Ken alcun potenziale, neanche quando è smarrito nel mondo reale tanto quanto Barbie: "Ken non ha mai destato preoccupazioni. Mai", afferma mentre Ken sta trasferendo (male) il patriarcato in Barbieland nel suo tentativo disperato di riconoscersi in qualcosa.
Quando Sasha, la figlia di Gloria (America Ferrera), dipendente della Mattel, chiede quale sia il finale di Barbie, il CEO della Mattel risponde in maniera stereotipata che la sua sorte è quella di stare con Ken perché ne è innamorata. Niente di più classico. D'altronde, generalmente, come altro finiscono i "film al femminile", con protagoniste ragazze che amano e vogliono solo essere amate, se non con un lieto fine in cui le donne riversano tutte le loro attenzioni su un uomo che dichiara il suo amore e che odora di relazione appagante soltanto perché ha avuto il coraggio di esprimere la propria sensibilità? Barbie però sceglie di andare via. Se Ken, per affermare se stesso, scopre l'importanza di "sentirsi abbastanza" e di non vivere la sensazione di inferiorità, a Barbie non basta "sentirsi abbastanza". Perdonate il gioco di parole. Lei vuole sentire. Tutto, in maniera diversa. Da umana. To feel, come dirà poco dopo Ruth.
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E quindi Ken rimane solo. Finalmente! E ha la possibilità di ripartire da se stesso. Ken, somiglia tanto a Bridget Jones, ma stavolta, per fortuna, ha più di un paio di alternative tra cui scegliere. E una di queste è la felice, appagante e costruttiva solitudine.
In questa "riassegnazione dei posti di ognuno" (senza però parlar di ruoli ed etichette), ciò che è ancora più importante, nel finale del film, è che tutti adesso conoscano cosa vogliono evitare. Come dice la stessa Barbie, parlando del motivo per cui il monologo di America Ferrera riesce a risvegliare le altre Barbie, perché: "Dando voce alla dissonanza cognitiva necessaria per essere una donna nel patriarcato, lo hai deprivato del suo potere." Nel finale, il patriarcato non ha potere per nessuno dei personaggi principali (non pensate al CEO della Mattel, per lui non vale: è il caso perso che ci vuole per ricordarci che nella vita vera, purtroppo, non tutti hanno capito il motivo per cui smettere di credere nel patriarcato sia fondamentale).
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Pensate un po', per tutto il film, Allan era già "vaccinato": conosceva già il dolore dell'essere una donna all'interno del patriarcato: vivendolo tutto il tempo, prima ancora di sapere che quello si chiamasse patriarcato. Per questo non attecchisce nessun lavaggio del cervello su di lui. Beh, caro Allan, il film ci insegna ad aprire gli occhi e restituire il valore giusto a tutti, perché ogni singolo individuo ne è meritevole. E quindi, questo articolo è per te.
Stavolta, nel titolo, il tuo nome viene prima di quello di Ken. Ed è anche l'ultimo a chiudere l'approfondimento in cui, speriamo, di averti restituito l'importanza che meriti.
Non c'è di che, "amico".