Nel 2012, dopo cinque anni di True Blood, il suo autore Alan Ball lascia fatine e vampiri e si sposta su un nuovo progetto per un canale che fino a quel momento non aveva mai prodotto serie in proprio. Qualcuno avrà sperato in un ritorno alle atmosfere di Six Feet Under, ma chi conosceva la rete consorella di HBO, Cinemax, sapeva cosa aspettarsi: basti dire che gli americani la soprannominano Skinemax per la quantità di nudi nella sua programmazione. Per altro Alan Ball non è che il produttore di Banshee, mentre gli autori sono una coppia di romanzieri: David Schickler e Jonathan Tropper, privi di esperienze pregresse in TV. Fa loro da contraltare il veterano regista Greg Yaitanes, che è ha diretto sette episodi su venti (tra cui il pilot, la premiere e il finale della seconda stagione) e figura anche come produttore. Ad affiancarlo nella creazione di combattimenti viscerali, ispirati a suo dire tanto ai film con Jason Statham quanto alle scazzottate dirette da John Carpenter in Grosso guaio a Chinatown e Essi vivono, troviamo il fight coordinator Marcus Young. Spesso non accreditato, lavora da anni dietro le quinte e di recente ha firmato gli scontri di Captain America: Il primo vendicatore e di Into Darkness - Star Trek: roba però decisamente edulcorata rispetto a Banshee!
Very Guilty, Very PleasureCaratteristica di Banshee, ancor più di Strike Back coprodotta da Cinemax e da Sky britannica, è infatti la quantità e la qualità di sesso e violenza graficamente espliciti. Insomma le cose di cui è spesso accusata HBO, e ancora più spesso Starz, qui hanno un vero e proprio habitat naturale senza remore. Tanche che il pilot si preoccupa di presentare i personaggi con una fellatio, un cunnilingus e una sveltina. Nelle puntate successive seguirà un bel campionario di posizioni praticate da figure a un passo dall'immaginario porno, come la giovane amish Rebecca che con gusto si libera delle proprie inibizioni religiose ma, dopo essersi data da fare, torna a indossare una candida cuffietta (almeno per la prima stagione). Dal punto di vista della violenza, la serie non è da meno, già la prima fatidica rissa in un bar finisce con quattro morti, tutti in modo più o meno orribile. E non è niente rispetto al combattimento tra il protagonista e un campione di arti marziali miste che si protrarrà per alcuni minuti tra fratture e grida di dolore sul finire del terzo episodio. Se a quel punto lo spettatore non è ancora travolto da una scarica di adrenalina, è bene che lasci perdere, perché presa nel modo giusto la visione di Banshee può essere esilarante, ma se la si affronta con altre pretese è di un trash indigeribile, seppur tecnicamente ben realizzato. Quando hai la battuta, non ti serve la trama
La scrittura di Banshee infatti non è quella cosa, raffinata e intellettuale, che si trova nelle migliori produzioni delle cable americane e vive invece di one-liner, battute a effetto, a volte tronfie a volte ficcanti, mai stratificate. Del resto la trama è sempre molto lineare e i personaggi introdotti servono a fare numero e a dare al protagonista ostacoli che non si esauriscano in una scazzottata o in una sparatoria, piuttosto che a rendere complesso il racconto o lo spaccato sociale. Banshee racconta, non senza ironia, di uno straniero senza nome, un ladro che ruba per se stesso anche la stella della legge, quella dello sceriffo Hood. Al criminale appena uscito di galera e in cerca della sua precedente compagna Anastasia - e dei diamanti che lei avrebbe nascosto - l'identità dello sceriffo sembra il modo migliore per agire in relativa libertà e non lasciare tracce troppo evidenti a chi lo sta cercando.
Con una simile premessa le cose non possono andare lisce molto a lungo, soprattutto perché l'immaginaria cittadina di Banshee (chiamata come lo spettro ululante del folklore irlandese e scozzese), in Pennsylavnia, è sotto il giogo di diverse attività criminali, da una parte l'ex Amish Kai Proctor e dall'altra la comunità indiana che vuol mettere in piedi un casinò, cui si aggiunge la mafia ucraina in cerca di Hood e di Anastasia, che a sua volta ora vive sotto un'altra identità, quella di Carrie Hopewell. Ci sono in Banshee anche diversi casi portanti di puntata, per esempio quando una banda di biker arriva in città senza sapere contro chi si mette, ma la gran parte dell'intreccio è nel rapporto tra i vari protagonisti e antagonisti, in una prima annata all'insegna del tutti contro tutti.
La seconda stagione vede Hood e Anastasia più allineati, inoltre vive ormai in città anche l'hacker en travesti Job, ma questo non facilita le cose perché entra a complicare il gioco l'FBI. Rispetto alla prima stagione, la seconda si segnala comunque per la voglia di rischiare puntate più spiazzanti, per esempio quella quasi interamente lirica e bucolica in cui Hood va a prendere la compagna uscita di prigione, oppure quella nerissima in cui il poliziotto di colore affronta un gruppetto di neonazisti. Sottotrama questa ripresa anche nel finale, che ha entusiasmato Samuel L. Jackson su Twitter. Con tanta violenza e situazioni estreme è inevitabile che la serie viri verso fascinazioni reazionarie, da non prendere però sul serio perché neutralizzate dagli stessi eccessi messi in scena: Banshee è True Pulp.