È sempre una questione di memoria. Una canzone, un libro, un film. L'idealizzazione dei ricordi, che oggi più di ieri non riusciamo (e non vogliamo) dimenticare. Forse per questo, nel quarto film di Bad Boys, Will Smith e Martin Lawrence non si sforzano a cambiare il paradigma dei loro personaggi, restando fedeli al loro - e al nostro - passato. Impossibile evolvere gli agenti Mike Lowrey e Marcus Burnett, volti sudati e voci chiacchierone di una giustizia che sfreccia veloce, tra le strade assolate di una caldissima Miami (pensare che nel soggetto originale doveva essere New York la città protagonista). Bad Boys: Ride or Die diretto da Adil El Arbi e Bilall Fallah, e scritto da George Gallo (che nel 1995 firmò lo script del primo capitolo), è il comfort movie formato fracassone, che riavvolge il nastro di quel pubblico cresciuto con le VHS noleggiate al Blockbuster sotto casa.
Sì, siamo forse troppo nostalgici, ma quando all'inizio del film compare la saetta della produzione Don Simpson/Jerry Bruckheimer, l'attesa diventa sussulto. Quel fulmine, in fondo, scava nei nostri ricordi cinematografici, portandoci a quando certi film (come Bad Boys: Ride or Die!) venivano soppesati solo nell'ottica dell'intrattenimento. Trent'anni dopo le cose sono cambiate: il cinema pop sta perdendo il suo appeal, e tutto subisce una correzione votata ad una credibilità che non può mai fare rima con le regole del grande schermo. Soprattutto, non con le regole di Michael Bay, regista poco avvezzo alla formalità, che sul set di Bad Boys, quando Will Smith era "solo" il Principe di Bel-Air, negò a più riprese la traccia della sceneggiatura, invogliando Smith e Martin Lawrence a perseguire una costante improvvisazione (non senza screzi, ma il temperamento di Bay è un plus in certe situazioni).
Bad Boys, emblema del cinema anni Novanta
In fondo, la grande forza della saga di Bad Boys, sviluppatasi poi nel sequel del 2003 e in Bad Boys For Life del 2020, fino a Ride or Die (qui la nostra recensione) risiede proprio nella complicità cameratesca tra Lowrey e Burnett, quei migliori amici diventati, negli anni, parte integrante del nostro immaginario. Colonne di un buddy cop dalla battutaccia pronta, ed emblema delle produzioni targate Simpsons & Bruckheimer. Del resto, sono gli Anni Novanta, e Bad Boys sembra quasi sdoppiare l'archetipo da poliziottesco americano reinventato da Beverly Hills Cop (seguendo il flusso di Arma Letale), aprendo poi la strada a The Rock di Michael Bay, a Con Air di Simon West e ancora ad Armageddon diretto di nuovo da Bay. Un cinema di forte impatto e di forti emozioni, dosate al meglio per un pubblico che proprio durante i 90s ha trovato la sua forma migliore, garantendo alle sale un incasso costante e partecipato.
Basti pensare che Bad Boys è riuscito ad incassare 141 milioni di dollari in tutto il mondo. Una cifra che verrà doppiata nell'estate del 2003, quando Bad Boys II portò alla Columbia Pictures ben 273 milioni di dollari. Più del doppio. Altra epoca, altre produzioni, altri budget (non che oggi i budget siano inferiori, ma probabilmente i soldi vengono spesi male), altre pretese da parte di una platea che puntava sul cinema come primo luogo di svago (almeno rimanendo nel contesto delle produzioni Simpson/ Bruckheimer). Lo stesso pubblico che rafforzerà la saga anche grazie all'home video. Bad Boys, infatti, è stato uno dei titoli più noleggiati tra il 1995 e il 1996. Avremmo aspettato poi vent'anni (e una Pandemia di mezzo, che ne inficiò il risultato) per vedere il terzo capitolo, dopo una serie di suggestioni che avrebbero immaginato gli agenti di Miami approdare in un'ipotetica serie tv mai realizzata.
Una saga che non cambia
In fondo, meglio così. Perché non avremmo potuto concepire Bad Boys, nella sua esagerata e spasmodica indole, fuori dal confine del cinema. Come mostra Bad Boys: Ride or Die. Un'avventura che spinge l'acceleratore senza mai sfiorare il freno, puntando sull'azione e sui toni da commedia (fin dallo spassoso incipit), sapientemente applicati all'approccio giggionesco di Will Smith e Martin Lawrence, prontissimi ad intonare il ritornello di quella canzone degli Inner Circle, divenuta una sorta di manifesto musicale. Personaggi pposti ma continui, abbiamo imparato a conoscere Lowrey e Burnett facendoli diventare una sorta di riferimento votato ad una formula che, film dopo film e scena dopo scena, continua a ripetersi senza mai stancare.
E ci riescono proprio perché sono una parte importante di quel cinema legato al passato, consumato in quel videoregistratore che ci portava dritti dritti a Miami. Bad Boys, in quattro film, è andato avanti senza mai spostarsi dal punto di partenza. Qualcuno si è sposato, qualcun altro è passato a miglior vita (e la morte del capitano Conrad Howard alias Joe Pantoliano, presente in tutte le pellicole è proprio il pretesto che accende Bad Boys 4), qualcun altro è entrato nella famiglia, ma il nucleo centrale resta conforme a quello originale, consumato e amato a forza di visioni e revisioni.