Recensione Querelle de Brest (1982)

L'ultimo capolavoro di Fassbinder, rappresentazione manieristica di lotte interiori e cammini personali di purificazione.

Arditi simbolismi

Il film di cui ci apprestiamo a parlare, presentato a Venezia nel 1982, dopo pochi mesi dalla morte del regista, e "quasi" vincitore del Leone d'Oro, è un'opera molto particolare.

Tratto dall'omonimo romanzo di Jean Genet del 1947, racconta la storia del marinaio Querelle, che giunge a Brest, ove comincia a frequentare il "Feria", un bordello dove i dadi sono il mezzo per vincere il sesso. Si gioca contro Nono: se si vince si potrà fare l'amore con Lysiane, se si perde sarà necessario sottoporsi alla sodomizzazione da parte dello stesso Nono. Querelle, dopo la prima volta, subìta un'umiliazione che mai prima aveva provato, decide di continuare a perdere di proposito.

Diciamolo subito: non è difficoltoso affermare che Querelle de Brest sia un capolavoro. Come tutti i capolavori, ha la capacità, partendo da premesse stilistico-tematiche relativamente semplici, di aprirsi in un ventaglio di multiformi espressioni artistiche, dando luogo a un gran numero di questioni e interrogativi, sia dal punto di vista prettamente cinematografico, che da quello contenutistico. La società rappresentata è una società squisitamente omosessuale, e non è quindi un caso che l'unica donna, Lysiane, venga rifiutata, respinta; nel particolare è memorabile la scena in cui la stessa Lysiane (interpreta da una strepitosa Jeanne Moreau), imbruttita da un trucco particolarmente pesante, canta che "ogni uomo uccide ciò che ama": questa è un po' la summa dell'atteggiamento di questo elemento estraneo, spettatore delle vicende in cui gli uomini, troppo innamorati di sé stessi, si imbarcano (proprio come marinai), in vicende nelle quali spesso rimangono invischiati, entrando a far parte di quella varia, ma sostanzialmente uniforme, umanità che popola Brest.

In tutta l'opera vi sono molti momenti che appaiono di altissima levatura artistica, per la loro forza rappresentativa e per la capacità di mettere in luce un dramma il quale è contemporaneamente intimo e generale perché, colpendo il singolo, automaticamente agisce su tutti; sembra quasi che tutti gli uomini di Brest siano legati a doppio filo tra di loro, ma ciò che li tiene uniti, anche se distanti fisicamente e spritualmente, è un qualcosa di effimero, che si rende concreto solamente negli atti di violenza, di sopraffazione reciproca. È quindi, per tutti, una sorta di cammino catartico, che attraverso l'umiliazione, da subire prima, e poi da infliggere, porta all'espiazione delle proprie colpe, le stesse che hanno favorito la catarsi, creando quindi un circolo virtuoso (e vizioso) in cui nessuno è incolpevole, ma tutti sono vittime.

D'altra parte, certamente Querelle de Brest non è un'opera facilmente assimilabile, data la peculiare scelta del regista nella messa in scena. La vicenda, infatti, ci viene raccontata contemporaneamente da tre punti di vista differenti: la voce fuori campo, dotata di onniscienza, la riproduzione delle registrazioni su cassetta del tenente Seblon e le frasi, sparse sui muri di Brest, e nei cartelli su fondo bianco che intervallano la narrazione in maniera regolare e cadenzata, in accordo con lo svolgersi degli snodi principali della trama.
Le scenografie sono volutamente stilizzate, dal piglio simbolista e fortemente legate alle vicende che vi si svolgono davanti; da notare la presenza di numerosi elementi fallici, i quali ci permettono di ribadire ancora come le scelte scenografiche di Fassbinder siano state precise, funzionali alla rappresentazione di un micro-mondo particolarissimo, unite alla sapiente illuminazione che si mantiene sempre sui toni del giallo e dell'arancione, richiamando un eterno tramonto, con poetiche incursioni nel blu e nei toni più scuri.
In questo quadro generale di perfezione formale, si inseriscono le sentitissime interpretazioni di Brad Davis e Franco Nero i quali, alle prese con due personaggi estremamente difficili, riescono a tratteggiarne le guerre interne, attraverso una mimica efficace ma mai troppo marcata.

In definitiva, seppur concedendo spazio a chi ha definito troppo manierista l'opera di Fassbinder, chi scrive si sente di dire che il manierismo del quale è intriso questo lungometraggio è comunque arte elevatissima, audace, coraggiosa, slegata da condizionamenti sociali e pronta a rappresentare un sottomondo quasi subumano con toni di disincantata sincerità, privilegiando quindi un pacato ma forte, efficace, espressionismo.