Ci è sembrato nuovo e al contempo in dialogo con forme di cinema del passato. C'era qualcosa che ci ha ricordato le strutture classiche di Lubitsch o Howard Hawks, e poi ha preso una direzione completamente sincera e inaspettata.
Con queste parole Greta Gerwig, Presidente della Giuria della 77esima edizione del Festival di Cannes, ha motivato la decisione di attribuire la Palma d'Oro come miglior film ad Anora, ottavo lungometraggio del regista e sceneggiatore Sean Baker. Un riconoscimento che, nel giudizio dell'autrice di Lady Bird e Barbie, ha premiato la commistione fra determinati modelli della Hollywood classica e quella ricerca di innovazione da sempre al cuore della filmografia di Baker, considerato da quasi un decennio uno dei più significativi esponenti del cinema indipendente americano, con una poetica e una cifra stilistica distintive e ormai ben identificabili.
Immigrati e sex worker: gli outsider del cinema di Sean Baker
Se infatti dai tempi di Tangerine, girato interamente con un iPhone, Sean Baker ha potuto contare su mezzi produttivi senz'altro più ampi (pur continuando a lavorare con budget contenuti), il cuore del suo cinema non appare cambiato: da un peculiare amalgama fra realismo e leggerezza alla profonda empatia nei confronti dei cosiddetti outsider, spesso relegati ai margini della società. Dall'immigrato cinese soffocato dai debiti di Take Out ai sex worker di Prince of Broadway e Tangerine, dalle pornostar spiantate e squattrinate di Starlet e Red Rocket alla routine nel fatiscente motel di Un sogno chiamato Florida, Baker ci ha condotto negli angoli di un'America sospesa fra povertà endemica e volontà di riscatto, senza mai cedere però alla retorica del pietismo né alle trappole del miserabilismo: il senso di dignità dei suoi personaggi è animato non solo dall'ostinazione e dalla resilienza, ma soprattutto da una genuina joie de vivre, al di là delle circostanze.
Sono caratteristiche riconducibili pure ad Anora, nome anglicizzato in Ani, ovvero l'eponima protagonista del film già avviato a diventare il maggiore successo nella carriera di Sean Baker: una ragazza di origini uzbeke che si guadagna da vivere come stripper (e talvolta, forse, pure come escort) in un night club di Brighton Beach, nell'area di Coney Island. Interpretata dalla venticinquenne Mikey Madison, già comparsa nella serie TV Better Things e in una piccola parte in C'era una volta a... Hollywood, Ani affronta la propria routine con relativa serenità e professionale distacco. Baker non mette in discussione il suo lavoro da un punto di vista morale (non lo faceva neppure nei suoi film precedenti), bensì da una prospettiva 'contrattuale': redarguita dal proprio capo per aver chiesto dei giorni di permesso, Ani non esita a ribattere che il suo impiego non prevede contributi, né garanzie previdenziali o assicurative, spostando l'attenzione su uno svantaggio prettamente socio-economico.
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La novella Pretty Woman di un'anomala rom-com
È un'indicazione emblematica di un tema alla radice del racconto: le differenze di classe come barriere invalicabili, alla base di una disparità sociale che è parte integrante del melting pot dell'America di ieri e di oggi. Differenze che tuttavia, come nelle più canoniche fiabe hollywoodiane, all'improvviso la protagonista sembra in grado di scavalcare in virtù di un clamoroso colpo di fortuna: l'incontro con Vanya Zakharov (Mark Eydelshteyn), detto Ivan, viziatissimo rampollo di un oligarca russo, da subito conquistato dalla travolgente sensualità di Ani, al punto da ingaggiarla per una settimana di 'esclusiva'. Il canovaccio è pressoché identico a quello di Pretty Woman di Garry Marshall, la rom-com per antonomasia di fine millennio, ma Sean Baker, fedele a una visione ben più ancorata alla realtà, lo priva di tutti gli orpelli idilliaci: pertanto Ivan non è l'innamoratissimo Principe Azzurro di Richard Gere, ma un impulsivo ventunenne in preda a una gioiosa frenesia sessuale, che fra un coito e l'altro torna a dedicarsi alla play station.
Per tutta la prima parte, Anora (qui la nostra recensione) fa leva dunque su una tradizione hollywoodiana che indirizza inevitabilmente le attese del pubblico: Ani si configura come la fallen girl salvata dall'amore e catapultata in fretta e furia verso il matrimonio, in una sorta di happy ending accelerato, mentre il riccioluto Mark Eydelshteyn è bravissimo nell'aggiungere allo sfrenato edonismo di Ivan degli accenti di candida, puerile ingenuità. Ma come le premesse lasciavano intuire, il secondo atto del film segna una drastica svolta nella trama: perché la famiglia di Ivan non ha alcuna intenzione di accettare le sue nozze con una ragazza di estrazione sociale così bassa, richiedendo l'immediato intervento di un terzetto di 'scagnozzi' incaricati di annullare il matrimonio in meno di ventiquattr'ore. È dal loro ingresso sulla scena - ovvero il lussuoso appartamento di Ivan - che Anora entra nel vivo, frantumando l'evanescente romanticismo dei neo-sposi e assumendo un ritmo via via più incalzante.
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Scene di lotta di classe a Coney Island
Da qui in poi, e fin quasi al termine delle due ore e un quarto complessive di durata, l'opera di Sean Baker spicca il volo, combinando comicità slapstick (la goffa lotta fra Anora e i suoi sequestratori), scontro di caratteri e formidabili punchline, secondo una formula che pesca a piene mani dalla commedia classica: per l'appunto, Ernst Lubitsch e Howard Hawks, ma pure Billy Wilder, George Cukor e Preston Sturges. E per tutta questa lunga, divertentissima sezione del film, Baker può contare sulla verve scatenata di Mikey Madison, perfetta nel dar corpo e voce all'indignazione furiosa del suo personaggio, ma pure nel lasciarne trapelare note di sofferta delusione; e su un'ottima squadra di comprimari, a partire dal nevrotico fixer Toros di un esilarante Karren Karagulian, passando per il più quieto Igor, duro dall'indole sensibile (non a caso, un complementare dell'inconsistente Ivan) a cui dà volto Yura Borisov, già protagonista di Scompartimento n. 6.
Se la veste assunta da Anora è quella di una moderna screwball comedy, il sottotesto del film rimane ancorato alla rappresentazione di un disperato conflitto di classe: se Ani prova a obliterare le proprie radici uzbeke abbreviandosi il nome, Toros, suo fratello Garnick (Vache Tovmasyan) e Igor appartengono all'etnia armena e fungono da 'manovalanza' per gli Zakharov, i miliardari russi che lanciano ordini direttamente da Mosca. In sostanza, Ani e i suoi sequestratori occupano i medesimi gradini in fondo a una gerarchia sociale che non hanno alcuna possibilità di scalare, e per buona parte del film si aggirano in un'enclave russofona di New York in cui i rapporti di forza sono sanciti dal denaro. E se la parentesi conclusiva a Las Vegas costituisce un capovolgimento delle convenzioni della commedia romantica, nonché un'amara presa d'atto dell'inviolabilità dello status quo, Ani può trarne una lezione importante e raggiungere comunque il suo anomalo lieto fine: rinunciare alle ambizioni da Pretty Woman per conferire il giusto valore all'autenticità dei sentimenti.