Alexander Payne presenta The Descendants al Torino Film Festival

Il nostro incontro con il regista e sceneggiatore che ha presentato nella rassegna torinese la sua ultima fatica cinematografica, ennesima conferma del talento di un autore innamorato di personaggi alla scoperta della propria identità.

Alexander Payne aggiunge una nuova perla alla sua stringata, ma preziosa, collezione di pellicole dirette e a sette anni dal delizioso Sideways torna dietro alla macchina da presa per The Descendants, presentato come evento speciale al Torino Film Festival 2011, nella sezione Festa Mobile - Figure nel paesaggio. Una pellicola, quella tratta dal romanzo di Kaui Hart Hemmings, Eredi di un mondo sbagliato, che conferma il talento del regista-sceneggiatore nel descrivere la vita di antieroi in cerca di identità e di un modo nuovo per fare pace con sé stessi e con il proprio passato. Esattamente come l'avvocato Matt King, interpretato da George Clooney, discendente di una dinastia di monarchi hawaiani che si ritrova a dover gestire la vendita di un enorme terreno di famiglia nel momento in cui la moglie Elizabeth è in fin di vita all'ospedale, dopo un grave incidente in mare; mentre King cerca di riallacciare i rapporti con le figlie Alex e Scottie, scopre che la consorte aveva da mesi una relazione extraconiugale con un agente immobiliare del luogo, Brian Speer. Sull'onda di un 'folle' sentimento di perdono, decide di scovare l'uomo per comunicargli la notizia dell'imminente morte di Elizabeth e spingerlo a raggiungere la donna al capezzale per un ultimo addio. Rilassato e spiritoso l'autore statunitense che abbiamo incontrato questa mattina è stato travolto dalle domande dei giornalisti.

Cosa ha trovato di curioso nella storia di The Descendants?
Mi è piaciuta per la sua stranezza. Insomma non mi era mai capitato di leggere la storia di un uomo che scopre il tradimento della moglie in coma. Mi ha colpito quindi questo forte aspetto emotivo e il fatto che fosse ambientata in un luogo particolarissimo come le Hawaii.

Com'è stato lavorare con George Clooney e perché ha deciso di offrire a lui la parte da protagonista?
La verità è che io ho sempre voluto lavorare con lui. Anzi, in un primo momento avevo pensato a George per il ruolo del protagonista in Sideways, ma poi ho reputato il personaggio non adatto alle sue doti. Così appena ho iniziato ad adattare il romanzo George è stata l'unica scelta possibile. Mi piaceva vederlo alle prese con un ruolo diverso dai personaggi che è solito interpretare, caldi, ironici, ma forse un po' distaccati. Matt è uno che si risveglia. Lo dice alla moglie, ma è lui rinascere dal punto di vista emotivo. E George, che è un uomo molto intelligente, ha dato subito il suo apporto al ruolo di Matt in termini di vulnerabilità.

Lei ha avuto anche la fortuna di dirigere Jack Nicholson in A proposito di Schmidt...
Già, uno che quando gli stringi la mano hai la sensazione di toccare Roman Polanski, Stanley Kubrick, Michelangelo Antonioni e via di seguito. Beh, sì sono stato fortunato. Sia Jack che George sono attori facilissimi da dirigere, perché capiscono i problemi del set prima degli altri. Sono proprio le grandi star ad essere al servizio del regista. La star è ben consapevole che il successo della sua interpretazione dipende da quello del film e hanno bisogno di condividere il lavoro con il regista. All'inizio Nicholson lo lasciavo fare, ma se il risultato della scena non mi soddisfaceva, andavo da Jack e mi scusavo per non avergli fornito un numero sufficiente di informazioni su come volevo che recitasse. E dopo aver sentito tutte le indicazioni, senza battere ciglio diceva semplicemente 'Ok! Rifaccio'. Io dico sempre che lavorare con attori del genere è come guidare una Maserati, l'importante è non sbagliare a guidare, perché anche le Maserati possono andare fuori strada. Jack mi ha reso un regista migliore perché era in grado di fare tutto.

Guardando i suoi film si ha la sensazione che abbiano dei modelli di riferimento ben precisi, in particolare i classici degli anni '70
Certamente, ma semplicemente perché quelli erano i film migliori! Tranne qualche eccezione, dagli anni '80 in poi il cinema non ha dato prodotti notevoli. Ammetto che forse il mio è un discorso di parte. Ho 50 anni, sono nato nel 1961 ed ero letteralmente ossessionato dal cinema, dove andavo tre volta a settimana con i miei amici. Non sapevamo che quella fosse l'epoca d'oro di Hollywood, per noi erano solo dei film splendidi. Quindi io sono stato segnato inevitabilmente dagli anni '70 e continuo a guardare a quel mondo con ammirazione. Tanto poi, la ricetta di un buon film è facile.

Qual è?
Mio nonno e mio padre gestivano un ristorante e sostenevano che fossero quattro le regole d'oro del successo: una zuppa calda, un servizio veloce, un prezzo accessibile e una valanga di clienti. La stessa cosa vale per il cinema. Per fare un buon film servono dei bei personaggi, una bella storia, una bella colonna sonora e dei bravi attori, un po' di umorismo e un po' di tragedia. E poi non deve essere troppo lungo.

Caratteristiche che sicuramente avranno i suoi prossimi film...
E per la prima volta nella mia vita ho già tutto preparato, due sceneggiature pronte per essere girate. Si tratta di due commedie, la prima è un road movie che racconta il viaggio in Nebraska di un padre con il figlio, l'altra e l'adattamento di una graphic novel ambientata ad Oakland, vicino a San Francisco.