Qui all'Olbia Film Network Alessandro Borghi è una vecchia conoscenza. Al festival, che come ogni anno animerà le notti di Olbia fino al 23 giugno, l'attore è legato da una lunga amicizia: quella con il suo direttore artistico Matteo Pianezzi, con il quale ha condiviso tanto negli anni in cui sbarcavano il lunario facendo i camerieri. Ci era venuto agli albori della sua carriera con il cortometraggio Carrozzella negra, per tornarci poi in diverse occasioni; e qualche giorno fa ha scelto questo palco come l'ennesima occasione per far vedere il film su Stefano Cucchi, Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, presentato lo scorso anno alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia e che gli è valso un David di Donatello. "La magia del cinema è riportare in vita una persona. Se potessi farei un film anche su Giulio Regeni", ha detto salutando il pubblico.
Lo abbiamo incontrato proprio in questi giorni di festival alla fine di una stagione cinematografica intensa, che dopo il film di Cremonini lo ha riportato sullo schermo con la sfida de Il primo re di Matteo Rovere. Non è ancora tempo di vacanze, attualmente è a lavoro sul doppiaggio della serie Sky con Patrick Dempsey, Diavoli, poi si vedrà...
Cinema e resistenza
Per aprire l'Olbia Film Network hai scelto Sulla mia pelle, lo hai definito un film necessario, "cinema come strumento di lotta". A cosa dobbiamo resistere oggi?
Bisogna resistere alla cattiveria, al giudizio, a tutte quelle cose che da bambini consideriamo sbagliate, ma che poi dimentichiamo quando cresciamo. Ci sono delle basi su cui costruire una società intelligente dove la gente si possa sentire libera e protetta, senza dover ricorrere alla violenza anche verbale. Non è solo una questione di ignoranza, dovremmo resettare tutto e tornare alla gentilezza, è una parola che mi piace molto. Essere più gentili è possibile, la lotta va portata avanti per questo, nel tentativo di insegnare alle nuove generazioni che il modo giusto per rapportarsi con la gente non è strillarsi addosso, ma è quello di sedersi e parlare.
C'è spazio in Italia per un cinema di resistenza?
C'è spazio per tutto, l'importante è fare bei film perché sicuramente la gente andrà a vederli. Sulla mia pelle ne è un esempio: è semplice, si limita a raccontare una storia senza necessariamente prendere una posizione e il pubblico lo ha portato in giro per il mondo, mi scrivono da ovunque. Fino a un anno fa si faceva addirittura fatica a fare luce sul caso di Stefano Cucchi e ora invece ci sono persone che dall'altra parte del mondo hanno voglia di parlarne: è la prova eclatante della forza del cinema come lotta e strumento di conoscenza.
Cosa ti ha lasciato Sulla mia pelle?
Credo che rimarrà il film della mia vita. È arrivato in un momento di grande maturità in cui sapevo di poter affrontare una sfida molto grande e di poterla portare a termine. Tutto quello che è successo dopo, dalla riapertura del caso al processo, ha triplicato il potere di questa esperienza. Quando pensi di poter fare qualcosa e di poterla fare bene, vale la pena farla anche se molto faticosa, è questo l'insegnamento che mi porterò dietro. Non importa quanti soldi ti daranno e in quante sale uscirà un film, sono innamorato di questo mestiere come spettatore più che come attore. Mi interessa fare cose che poi ho voglia di rivedere e non per gratificazione professionale, perché le soddisfazioni più grandi arrivano dalla mia vita privata.
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Sognando l'Oscar
Ti hanno mai proposto ruoli più leggeri?
Sì, ma non mi piace il modo di fare commedia in Italia, non ci siamo ancora uniformati all'Europa, non abbiamo mai scritto Love Actually - L'amore davvero o Hitch - Lui sì che capisce le donne. Spesso fare commedia vuol dire ricorrere a luoghi comuni: il gay con la maglietta rosa, il tipo alto e secco per forza scemo, mentre il basso e ciccione deve essere quello bullizzato da bambino. Bisognerebbe aprirsi a film che sovvertano i soliti cliché. E poi non ho molta necessità di fare commedia, perché nella vita rido già tanto e uso il mio lavoro come compensazione; quando vado al cinema voglio piangere.
In un'intervista alle Iene ti auguravi di vincere l'Oscar con un ruolo da trans...
Alla fine mi è arrivata anche una proposta, vedremo... Nella galleria di personaggi interpretati fino ad ora, quello della transessuale è uno di quei ruoli che mi manca; è una cosa a cui penso da quando ho visto Jared Leto in Dallas Buyers Club, sono rimasto folgorato. La cosa più interessante del mio lavoro è entrare nella mente delle persone che racconti, un ruolo del genere mi costringerebbe a indagare tutto un mondo ghettizzato ed etichettato secondo criteri sbagliati e obsoleti. Vorrei che avesse sul pubblico lo stesso effetto del film su Stefano.
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La tua paura più grande?
Ho molto spesso paura di non farcela e di tradire le aspettative o la fiducia di qualcuno. Succede sempre quando ti investono di qualcosa di molto forte, ad esempio quando ti prendono a fare un film senza un provino: fosse per me li farei sempre, anche tra vent'anni. Non servono solo al regista, ma anche a te per capire se sei giusto per quel ruolo. La prima volta che mi chiesero di fare un film senza un provino, come nel caso de Il primo re, mi chiesi: "Ma perché Matteo dà per scontato che io possa recitare in protolatino?", la paura di non rispettare quelle aspettative però mi ha portato ad arrivarci molto preparato. Quando parte l'azione non penso più a nulla, stacco tutto, uso il cinema in maniera quasi terapeutica; l'importante è cercare di andare sempre a fondo, mi diverte molto quando mi chiedono di dimagrire o ingrassare per un ruolo, se c'è una cosa che non capirò mai è l'ossessione di alcuni miei colleghi per il profilo migliore. Matthew McConaughey è diventato uno degli attori più bravi di Hollywood quando ha smesso di essere bello, ci sarà un motivo.