Credi che tutto ci sia permesso? Che le disgrazie cadano dal cielo? No, non è così! Siamo stati proprio noi: un poco alla volta, passo dopo passo ci siamo costruiti il nostro destino e la nostra fine.
All'alba degli anni Novanta, l'attenzione del pubblico occidentale viene catalizzata in misura sempre maggiore da una serie di nuovi talenti del cinema dell'Estremo Oriente. Il decennio precedente aveva sancito l'affermazione di due giovani maestri provenienti da Taiwan, Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang, i cui film però erano rimasti sostanzialmente nell'ambito dei circuiti dei festival; ma intanto, nel 1988 avevano debuttato dietro la macchina da presa Wong Kar-wai e Zhang Yimou. Proprio Zhang sarà il principale artefice dell'ascesa della "quinta generazione" dei registi cinesi: dopo l'Orso d'Oro ricevuto con la sua opera prima, Sorgo rosso, fra il 1990 e il 1992 inanella una tripletta di titoli del calibro di Ju Dou, Lanterne rosse e La storia di Qui Ju, che gli fanno guadagnare nel complesso un Leone d'Argento, un Leone d'Oro e due nomination agli Oscar, inclusa la prima candidatura nella storia della Cina nella categoria per il miglior film straniero.
Chen Kaige dal trionfo a Cannes alla censura in patria
In particolare Lanterne rosse, realizzato nel 1991, incanta le platee internazionali, suscitando un entusiasmo che contribuisce a spalancare le porte dell'Europa e dell'America al cinema cinese. E sulla scia della consacrazione per il capolavoro di Zhang Yimou, il 20 maggio 1993 approda in concorso al Festival di Cannes il quinto lungometraggio del suo connazionale Chen Kaige, un regista che proprio insieme a Zhang aveva mosso i primi passi nell'industria cinematografica: Addio mia concubina, trasposizione dell'omonimo romanzo scritto nel 1985 da Lilian Lee, nome d'arte della scrittrice di Hong Kong Li Pi-Hua. Il 24 maggio la giuria di Cannes, presieduta dal regista Louis Malle, attribuisce al film di Chen la Palma d'Oro in un ex-aequo con Lezioni di piano di Jane Campion, in un palmarès che vede ricompensato pure Il maestro burattinaio di Hou Hsiao-hsien.
La vittoria della Palma d'Oro, la prima (e tutt'oggi l'unica) assegnata a una produzione cinese, sarà il veicolo del successo di Addio mia concubina; perfino in America, dove l'opera di Chen Kaige ottiene il Golden Globe come miglior film straniero, due nomination agli Oscar e numerosi premi della critica. Ma nel frattempo, in patria, Chen deve fare i conti con le maglie della censura: distribuito il 26 luglio 1993, Addio mia concubina viene bloccato dopo pochi giorni perché non in linea con la politica culturale del regime. A indispettire le autorità governative, oltre all'omosessualità del protagonista Cheng Dieyi, è l'affresco ben poco edificante della Repubblica Popolare all'epoca di Mao Zedong e delle violenze perpetrate negli anni della Rivoluzione Culturale: elementi che porteranno alla rimozione di un quarto d'ora di pellicola quando a settembre, sull'onda del clamore internazionale, al film di Chen sarà concesso di fare ritorno nelle sale cinesi.
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Passioni e politica nella Cina del Novecento
Chen Kaige si era confrontato con la storia contemporanea del suo paese fin dall'esordio nel 1984 con Terra gialla, ambientato nella Cina rurale all'inizio dell'invasione giapponese. In Addio mia concubina, però, la narrazione si dipana nell'arco di ben mezzo secolo, intrecciando in quasi tre ore le vicende private dei personaggi con le radicali trasformazioni che si susseguono dalla metà degli anni Venti fino al 1977, subito dopo la morte di Mao. Testimone di tali trasformazioni, che li coinvolgeranno in maniera diretta, sono due cantanti dell'opera di Pechino: Douzi, affidato da bambino alla scuola di musica del maestro Guan da sua madre, impossibilitata a mantenerlo; e il coetaneo Shitou, che prende Douzi sotto la sua ala protettiva e, in seguito, dividerà con lui il palcoscenico. La formazione di Douzi e Shitou viene raccontata nella prima parte del film, in cui Chen sottolinea la disciplina inflessibile a cui sono sottoposti gli allievi, con tanto di punizioni corporali, ma anche la scoperta della loro vocazione.
Dedicare la propria vita all'arte: è la missione a cui Douzi, che da adulto prende il nome di Cheng Dieyi, aderisce con tutto se stesso. Nell'opera intitolata Addio mia concubina Dieyi, specializzatosi in ruoli femminili (i cosiddetti dan), si immerge nei panni di Yu, consorte del signore della guerra Xiang Yu, interpretato invece da Shitou, rinominato Duan Xiaolou. Se Dieyi antepone l'arte a qualunque altra cosa, a costo di sviluppare una totale identificazione fra sé e i propri personaggi (e di sottovalutarne le implicazioni politiche), Xiaolou al contrario si lascia distogliere dalla passione per Juxian, l'affascinante prostituta conosciuta nel bordello "La casa dei fiori", al punto da prenderla per moglie scatenando la gelosia di Dieyi. Il triangolo amoroso, tòpos per antonomasia del melodramma, fa dunque da perno dell'impianto narrativo per i successivi atti del film, dall'occupazione giapponese alla ripresa della Guerra Civile, fino alla Rivoluzione Culturale della metà degli anni Sessanta.
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Leslie Cheung: la maschera e il volto
Se a impersonare Xiaolou, oggetto del desiderio dei suoi comprimari, è l'attore cinese Zhang Fengyi, a dominare la scena sono soprattutto i suoi co-protagonisti. La volitiva Juxian è interpretata da Gong Li, diva suprema del cinema cinese, con quell'equilibrio fra grazia e determinazione che l'attrice ventisettenne aveva già sfoderato spesso davanti alla cinepresa di Zhang Yimou. Ma Addio mia concubina è ancor più il film che avrebbe immortalato nel suo ruolo più celebre Leslie Cheung, nato a Hong Kong nel 1956 e diventato una superstar, poco più che ventenne, grazie a una duplice carriera di cantante e di attore. Già diretto fra gli altri da John Woo (A Better Tomorrow) e Wong Kar-wai (Days of Being Wild), Cheung si rivelerà una scelta perfetta per Duan Xiaolou, nonostante venga doppiato in mandarino da Yang Lixin: per la sua bellezza androgina, per l'eleganza e il carisma che conferisce al personaggio e per l'intensità con cui dà sfogo alle sue tempeste emotive.
Impressionante dietro la maschera della concubina Yu (ma del resto, la figura di Dieyi è ingabbiata nella dicotomia fra la maschera e il volto), Leslie Cheung alterna la sommessa sofferenza per un amore negato - e sublimato unicamente attraverso la recitazione e il canto - alla rabbiosa fierezza di un artista accusato di collaborazionismo e calpestato dalle ragioni della politica. Nella concitata sequenza che si svolge nel pieno della Rivoluzione Culturale, con il repulisti della cultura tradizionale cinese da parte delle "guardie rosse", si consuma pertanto una dolorosa resa dei conti: mentre Xiaolou, pur di salvarsi, rivela la propria vigliaccheria e meschinità morale, Dieyi e Juxian si fanno trascinare in un autodistruttivo gioco al massacro. È la climax di una grandiosa epopea in cui storia e sentimenti convergono in un esplosivo corto circuito, di fronte al quale restano solo due alternative: soccombere alla disillusione od obliterare se stessi nell'abbraccio della finzione.