ACAB e il miracolo seriale di Michele Alhaique: “Sfido un'epoca distratta con la forza del mistero”

Il conflitto sociale, John Carpenter, Roma e la libertà artistica. Mezz'ora di intervista con il regista della serie Netflix. E sulla seconda stagione ci dice: "È ancora presto".

Michele Alhaique sul set di ACAB

Che fosse bravo lo sapevamo fin dai tempi del suo esordio da regista, ovvero Senza nessuna pietà del 2014 (dopo averci fatto ridere come attore in Boris 3). Ma che fosse addirittura capace di compiere i miracoli, è stata una scoperta. Un miracolo narrativo e registico, ovvio, ma pur sempre un miracolo. Perché se viviamo in un'epoca di omologazione, in cui (quasi) tutte le serie tv sono scritte e costruite per tenere alta l'attenzione del pubblico distratto, Michele Alhaique con la serie Netflix ACAB - tratta dal libro di Carlo Bonini e ispirata al film di Stefano Sollima - è riuscito in un solo colpo ad essere sia accessibile che ricercata, puntando ad una qualità narrativa e scenica oggi sempre più rara.

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Gianni, Giallini e Michele Alhaique sul set di ACAB

Entusiasmati dalla visione, approfondiamo la serie insieme ad Alhaique, partendo però dal finale. "Spero di non aver esagerato, ma per sei episodi, costretti e asfissianti, il finale doveva essere qualcosa che spingesse i protagonisti a guardare qualcosa fuori dal loro mondo", ci dice il regista, che al telefono, durante la nostra intervista. "Dovevano trovare magari una possibilità, o il coraggio di alzare gli occhi. E Roma in quel momento diventa quella possibilità".

ACAB, la serie: intervista a Michele Alhaique

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Marco Giallini e Valentina Bellè in scena

Sempre sul finale (che abbiamo già analizzato qui), Michele Alhaique spiega quanto la struttura sia stata complessa. "Nel mio immaginario ci sono dei riferimento, guardo tutto il cinema da sempre. Ciò che mi affascina della narrazione, è portare lo spettatore nel contesto emotivo dei personaggi. Trovare uno spazio emotivo in cui i personaggi si muovono. Per questo, nella scena finale, sono partito dalla notte di una Roma deserta. Durante il Covid feci un corto documentario, riprendendo proprio Roma, spettrale e silenziosa".

Tra dilatazione ed esplosione, è l'atmosfera che fa la differenza: "Volevo ricreare quell'atmosfera onirica, deserta, e surreale. La notte dell'ultimo dell'anno. Con un rimando ad atmosfere tensive, pensando per certi versi a Distretto 13: le brigate della morte di Carpenter. E l'attesa iniziale ce la siamo inventata con gli attori. Un attesa del pericolo, per un cerchio che si chiude. Ho voluto dilatare quel momento", continua Alhaique.

Tutto, poi, parte dalla location: "Sulla carta le scene hanno una forma indefinita, e per dare forma parti anche dai luoghi: Matteo De Laurentiis, il produttore esecutivo, mi ha dato lo spunto della location. Abbiamo esplorato la Stazione Termini, rielaborando la scrittura. Un finale che dialoga con l'inizio della serie: tutto ciò che non si vede è il fuoco della tensione. Rispetto ad altre sequenze d'azione abbiamo fatto un percorso, andando nel profondo, nei sotterranei, e poi siamo riemersi. Una possibilità data dal luogo: leggo un testo, e poi colgo l'ambiente che nutre la sequenza. Roma diventa un personaggio in questo caso, che isola e separa".

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Un finale... horror

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Adriano Giannini è l'agente Nobili

Poi, il regista, ci conferma la nostra sensazione: il finale di ACAB ricorda un film con gli zombie. "Quando ho riguardato al montaggio sì, ho pensato agli zombie movie", ci confida. "Doveva esserci la minaccia che viene da fuori, come negli horror, nonostante io non sia grande fan del genere. Però mi affascina il loro linguaggio: l'horror funziona se ha una messa in scena precisa. È la macchina da presa che crea il genere, e non il testo. E trovo che i registi più affascinanti siano quelli in grado di declinare la messa in scena di un genere, dentro ad altri generi ancora. Penso ad Hitchcock, o adesso a Villeneuve".

Sfidare gli spettatori distratti

A Michele Alhaique abbiamo chiesto come sia riuscito a rendere ACAB una serie lontana dagli standard algoritmici (sfidando, per così dire, le regole), avvicinandola invece ad una sorta di film diviso in sei puntate. "Lavoro al contrario. Quello che mi attrae è il mistero. E la serialità è strutturata per cadenzare il mistero. Il mistero è fondamentale nel racconto. Oggi c'è questa tendenza che vomita tutte le informazioni, ma questo rende arido il racconto. Diverso, fare un racconto tale in grado di tenere alta l'attenzione. Come? Attraverso il mistero. Una sfida gigantesca, con un rischio alto di fallire".

Acab Set Michele Alhaique
Il regista dietro le quinte della serie

L'autore, che ha già diretto ottime serie come Bang Bang Baby e Non uccidere (firmando anche diversi episodi di Romulus), racconta quanto la sfida dei cinque minuti iniziali (fatidici per acchiappare l'utente) sia effettivamente complicata: "Come inizia una storia è la sfida più grande che puoi affrontare. Si hanno tante possibilità di distrazione, e avere la pretesa di cogliere l'attenzione degli spettatori porta ad interrogarti. In questo senso la figura di Mazinga ci ha dato una possibilità: avere un volto che porta confidenza a chi guarda ci permette di osare di più (in questo caso Marco Giallini ndr). E gli spazi che mi sono preso spero possano permettere al pubblico di andare oltre l'azione fisica dei personaggi. E non c'è interruzione tra azione fisica e quella interiore. Ed è vero, sembra quasi un film da sei episodi. In questo senso la serie è più libera, e arriva dalla forza dei copioni. Se poi apro un varco emotivo cerco di coglierlo".

L'imponenza di Roma

ACAB, scritta da Luca Giordano, Bernardo Pellegrini, Filippo Gravino, Elisa Dondi e Carlo Bonini, molto in breve racconta le vicende conflittuali e inquiete del Reparto Mobile di Roma. E solo a Roma poteva essere ambientata. "L'unica metropoli che abbiamo in Italia", continua il regista. "Ti sposti e passi dalla borgata alle Mura Aureliane. In questo senso, non volevamo restituire un'immagine da cartolina. Anche la metropoli doveva essere specchio dei personaggi che si muovono dentro una camionetta, che sembra una prigione. Il racconto del mondo esterno è sempre filtrato. Penso alla caserma, un mondo in che gli viene loro imposto, e che abbiamo ricostruito attraverso tre location. Un luogo con una luce artificiale. Fuori, c'è una gabbia che fa loro filtro, esasperando i conflitti".

I protagonisti, interpretati da Adriano Giannini, Valentina Bellè, Marco Giallini e Pierluigi Gigante sono poi "Uno specchio della società. Ognuno di loro incarna qualcosa. È un microcosmo come tutte le realtà. E inevitabilmente lo sfrutti nel racconto. Poi, le storie più sono specifiche, più si parla in maniera universale. ACAB è una storia che ci porta a guardare qualcosa che non guardiamo, cercando di capire se c'è qualcosa che possa risuonarci dentro. In parallelo c'è uno scambio: penso alla Marta di Valentina Bellè, la coscienza di tutti gli elementi della squadra. Quando entra in crisi cambia gli equilibri del branco, e penso al Nobili di Giannini, che entra in scena in un modo ed esce in un altro".

Una storia ancora contemporanea

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Dietro le quinte: una scena girata a via del Corso di Roma

A Michele Alhaique non possiamo non chiedere cosa abbia frullato nella testa della produzione prima dell'uscita su Netflix, visti gli episodi di cronaca che hanno coinvolto i manganelli della polizia. "ACAB è una storia costantemente attuale. Anche mentre giravamo accadevamo fatti legati al tema. C'è la prospettiva legata a come guardi la società. E noi abbiamo il compito di raccontare storie che guardino alla realtà, e siano agganciate alla cronaca. La possibilità che dobbiamo darci è andare oltre allo sguardo naturalistico di un telegiornale. Provando ad esplorare le complessità della realtà. Sono fatti che esistono, da sempre. Il conflitto sociale non può essere smussato. Ne parlava Pasolini, ne parliamo oggi. Siamo però noi che mettiamo l'accento su una determinata cosa".

In chiusura, dopo mezz'ora di telefonata, la domanda obbligatoria: ci sarà una seconda stagione? La risposta del regista: "È troppo presto per dirlo. Certo, finché abbiamo storie da poter raccontare...".