Recensione Ombre rosse (1939)

Una diligenza che sfreccia lungo la Monument Valley cerca di portare in salvo un carico di disperati. In fuga dagli Apaches e dall'ipocrisia borghese. La vera estetica del vecchio West è tutta nelle Ombre rosse che si stagliano su un momento epocale della storia occidentale.

1939: fuga dal vecchio West

Se illuminati teorici del cinema come Jean-Luc Godard e André Bazin non si scrolleranno mai di dosso il peso "ideale" del western come genere cinematografico per eccellenza, il merito va soprattutto ad Ombre rosse: il film western per antonomasia. Perché il film di John Ford reinventa il genere su basi nuove, sfruttando per la prima volta nel western le risorse del sonoro e garantendo imperitura gloria al protagonista John Wayne.

Detto ciò, dobbiamo subito precisare che quello tacciato in modo troppo semplicistico come manicheismo (buoni e cattivi tenuti ben distinti) nel cinema di Ford, in Ombre rosse implode e anche in modo evidente. La pellicola di Ford si colloca alla fine del New Deal, in un fondamentale periodo storico per gli Stati Uniti. Essa occupa esattamente il centro in quella spirale di eventi (la Grande Depressione, il Proibizionismo e l'imminente ingresso nella Seconda Guerra Mondiale) che modificheranno per sempre il corso del Novecento occidentale.

La diligenza che attraversa la Monument Valley è forse l'emblema "mobile" più convincente di una nazione fotografata in un momento di transizione epocale. Allo stesso modo con il quale, parecchi decenni dopo, i choppers di Easy Rider immortaleranno il bieco moralismo borghese, con in sottofondo la Nostromo di Alien pronta a materializzare le paure interiori di una nuova generazione (soprattutto femminile). Nella diligenza di Ombre rosse vi sono tanti "scarti" della società, alcuni dei quali alla fine si salveranno dalle "delizie della civiltà". C'è un dottore alcolizzato. Una prostituta. Un rappresentante di liquori. Un banchiere truffaldino. Un gentiluomo sudista con il vizio per il gioco d'azzardo. E Ringo Kid, il protagonista assoluto, un fuorilegge in fuga, braccato e senza più vie di scampo. Il collante tra queste figure "negative" è rappresentato da un Maresciallo, dal conducente lazzarone della diligenza e da una donna incinta, moglie di un Ufficiale dell'Esercito.

La mano di John Ford è in grado di penetrare il lato oscuro dei valori borghesi amalgamando i diversi caratteri come raramente è accaduto nella storia del cinema (basta l'eloquenza di due primi piani per farci capire come andrà a finire tra Ringo e Dallas). Non importano le evidenti infrazioni delle regole di base della regia classica presenti in alcune scene dell'assalto, dovute più che altro a motivi di opportunità (come John Ford dichiarerà sfacciatamente a Peter Bogdanovich in una famosa intervista). Basta solo il furore realistico con cui Ford "getta" la macchina da presa all'inseguimento di cavalli in corsa e di stuntmen sprezzanti del pericolo a ricordarci come Ombre rosse non possa che scuotere ancora oggi l'immaginario collettivo di appassionati cinefili e non. Per non tacere dell'epigrammatico movimento di macchina che rivela la presenza degli Apaches e dello zoom in avanti che fa entrare nella storia John Wayne. E un intero genere cinematografico, finalmente affrancato dagli stereotipi.