22 proiettili per il nuovo codice d'onore
Charly Matteï (Jean Reno) è un gangster stanco e attempato, desideroso di ritirarsi dal crimine, dopo aver dominato il mondo della malavita marsigliese e imposto il suo codice morale, vetusto e superato per la nuova criminalità spietata e senza regole. Ma la sua figura è ancora ingombrante e nonostante la sua distanza dalle attività criminali subisce un attentato esemplare che ha il solo limite nella sua mancata efficacia. 22 colpi e altrettanti proiettili incapaci di ucciderlo, ma sufficienti a generare una vendetta rimandata almeno fino a quando le dure leggi della mala non lo costringono a farsi avanti. Una furia lucida e inarrestabile che si ferma solo di fronte alle ripercussioni familiari, quando il nuovo boss Tony Zacchia rapisce e ordina l'uccisione della figlia di Matteï, momento in cui Charly è costretto a venire a patti con la polizia, grazie al desiderio di Marie Goldman (Marina Foïs) di catturare Zacchia, macchiatosi in passato anche dell'omicidio di suo marito.
L'immortale segna un interessante cambio di direzione, almeno provvisorio, nelle produzioni della Europa Corporation di Luc Besson. Tra un action e l'altro - alcuni riusciti, altri meno, tutti indistintamente parossistici - spunta il cinema di genere più nobile in Francia: il polar, ovvero la variante transalpina del noir. Genere che ha dato vita in passato a film indimenticabili, specie sotto la regia di Jean-Pierre Melville e che sopravvive nel presente con risultati altalenanti e per lo più con titoli inediti in Italia, dove spesso sembra che si faccia a gara ad evitare i film migliori, come La Chef di Guillaume Nicloux o Le dernier gang di Ariel Zeitoun. Richard Berry non è Jean-Francois Richet che ha rilanciato il genere internazionalmente con Nemico Pubblico n°1, ne Jaques Audiard, il regista che maggiormente ha ridato spolvero al polar negli ultimi anni con Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore e Il profeta e finisce per cadere troppo spesso nelle trappole di un film di produzione, avaro di personalità e dall'estetica troppo effettata, con una messa in scena iperbolica sostenuta da un buon montaggio e un costante utilizzo della classica italiana, Puccini su tutti, vera ossessione di Matteï. Contemporaneamente la sua presenza al timone di regia, dopo anni di recitazione e di sceneggiature (Berry è presente anche qui nel ruolo di Aurelio Rampoli ) conferma l'invidiabile capacità tutta francese di rendere credibile attori e tecnici in tutte le numerose sfaccettature della macchina cinema. Ne trae vantaggi la direzione degli attori, con villain dalle facce giuste che evitano la facile trappola del ridicolo (basti pensare a Kad Merad dalla comicità di Giù al nord alla cupezza del suo ruolo di antagonista) e l'antieroe riluttante con la maschera immobile ma funzionante di Jean Reno, abile nel tenere il suo personaggio lontano dal patetismo di un plot a rischio di retorica. Dalla prima sequenza in voce off, alla chiusura dove i rimandi al polar sono evidentissimi e il tema dell'onore e della vendetta diventa il segno incontrovertibile delle vicende (con la resa dei conti tra Matteï e Zacchia dal sapore addirittura pedagogico) corteggia il classicismo andato perduto, in tanto cinema contemporaneo dove il genere è un guscio svuotato di significati, la cornice dell'iperbole e della stilizzazione. Lo fa con il cinema del presente ma il cuore al passato. Perchè il sangue chiama sangue e come riecheggia nella voce off "Se decidi si smettere, un giorno qualcuno busserà alla tua porta per vendicare suo padre, suo fratello o suo zio", in un circolo interminabile su cui si fonda la natura del racconto nero. La sua ineluttabilità e il suo fascino immortale.