Le grandi aspettative e le tante chiacchiere fanno sempre male. Creano disordine percettivo, deviano il centro d'attenzione e si finisce spesso per dubitare anche del proprio giudizio. Davanti a Avatar la sensazione del luna park magniloquente costruito su un plot troppo convenzionale pare acquisizione largamente diffusa, quanto un po' superficiale. Come se un film capace di riempire gli occhi con le mirabilie tecniche in possesso sia necessariamente un atto di arroganza, o peggio ancora di disumanizzazione, come hanno pensato in molti, anche prima di vedere il film. Di certo ha pesato sul giudizio la grandezza del progetto. Ambizioso e sterminato, in mano al Re autoproclamato del Titanic, James Cameron che dopo aver iniziato a pensare il film quasi dieci anni fa, mise tutto in ghiaccio per anni in attesa della tecnica. Non proprio conforme all'idea di urgenza ma perfettamente coerente e esemplificativa del desiderio di James Cameron di stupire il mondo con un'avventura visivamente inarrivabile in 3D del costo di 400 milioni di dollari. Obiettivo centrato, perché indubbiamente Avatar si dimostra una vera esperienza sensoriale, che nonostante alcune evidenti contraddizioni, traccia un'importante sintesi tra potenzialità tecniche del nuovo cinema e le ambizioni artistiche.
Al centro delle vicende del film, c'è Jake Sully (Sam Worthington), un ex Marine costretto a vivere sulla sedia a rotelle che riesce a farsi reclutare nell'avamposto umano su Pandora, luna del pianeta Polyphemus, dove una multinazionale è combattuta se affidare la ricerca di un raro minerale - fondamentale per risolvere la crisi energetica sulla Terra - alla troupe scientifica capeggiata dalla dottoressa Grace Augustine (Sigourney Weaver) o alla soluzione militare in mano al colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang). A causa dell'atmosfera tossica di Pandora l'equipe scientifica ha dato la luce al Programma Avatar, in cui gli umani possono neurologicamente connettersi ad un raffinatissimo corpo organico, controllato a distanza. Schiacciato tra le due soluzioni Jake Sully, affascinato dalla possibilità di rinascere nel corpo del suo avatar ma costretto a infiltrarsi tra i nativi di Pandora per permettere l'estrazione del minerale, pena la colonizzazione del pianeta. Ma una volta addestrato alla sopravvivenza su Pandora dalla nativa Neytiri, finirà per innamorarsi di lei e del suo magico mondo naturale, dove i filamenti del corpo sono fatti apposta per connettersi con tutte le creature viventi del pianeta.
Parlare di 3D in riferimento a Avatar non è solo doveroso, ma anche necessario per comprendere a pieno la visione di Cameron che mette in piedi un'opera che da una parte accetta tutte le regole del blockbuster tradizionale (compresa una certa rigidità di scrittura, ma con ben altri risultati qualitativi in termini di ritmo e capacità di intrattenere) dall'altra fornendo una spinta propulsiva decisiva a questa tecnologia proprio non abusandone, ma facendone parte integrante della sua ricerca visiva . Ha allora perfettamente ragione Enrico Ghezzi quando scrive che nel film "la terza dimensione siamo noi spettatori, sollecitati a correre oltre la velocità della luce sulle nostre gambe-occhio intorpidite". Come a dire che la rivoluzione più volte evocata è anche e soprattutto uno stimolo al pubblico per scrollarsi di dosso un modo vecchio di interpretare la realtà e l'esperienza cinematografica. Tutti accorpati nel corpo fantastico dell'avatar Sully che esplora un universo dominato da una flora straordinaria, creata con una maniacalità e una generosità immaginifica indiscutibile, come anche l'incredibile fauna composta da lupi, draghi volanti e tutto il campionario fantastico che si può immaginare esistere su Pandora. In epoca di dilagante derivazione letteraria, Avatar, un po' come la saga di Star Wars, inventa di fatto un mondo, permettendo a Cameron e al suo sconfinato staff tecnico di immaginare una Pandora incredibilmente complessa, tanto che il quadro sembra non riuscire a contenere il flusso di immagini, come capita di avvertire nel primo incubo notturno di Sully, salvato da Neytiri da un'aggressione animale o nello scintillare della vegetazione che restituisce una sensazione tattile di grande suggestività. Un mondo altro, vitalizzato da un uso straordinario del 3D, passato definitivamente da tecnica impressionistica a linguaggio di rappresentazione, capace di profondità di campo incredibili e di partecipazione assoluta alla storia. Sintesi di cui potremmo godere i risultati più in futuro che nel contemporaneo perché il 3D è una frontiera tecnica e anche emozionale che necessita una conversione dei sistemi e delle abitudini che richiede una nuova generazione di spettatori capace di pensare il cinema senza valutarlo comparativamente.
Ma all'incanto visivo ricercato con un'abnegazione e una voglia che danno ancora una volta la cifra della megalomania (titanic)a e sognante di Cameron corrisponde spesso un terreno narrativo che nega la tesi perchè costretto forzatamente a cercare tutto e tutti indiscriminatamente, dal 3D al divx, dal divoratore di blockbuster all'adoratore di fiabe. Avatar cerca il nuovo mondo malickiano ma trova Il pianeta delle scimmie. Avatar costruisce una fiaba sul non visibile ma ne affida le sorti a personaggi troppo schematici, dal responsabile commerciale della spedizione, al militare in preda a deliri guerrafondai, al solito yankee rozzo ma dal gran cuore, confessando i peccati originali dell'America in un calderone di riferimenti caotico. Lo stesso corpus ideologico del film per quanto portatore di un'immagine inequivocabilmente ecologica e di una dura reprimenda del mito del colonialismo, affoga un po' in alcune banalità, la maggior parte delle quali probabilmente risultanti dai compromessi e dagli strappi produttivi cercati di volta in volta. In questo contesto l'arrivo del conflitto militare priva un po' il film della sua magia a favore dei muscoli e fa capolinea una certa retorica hollywoodiana in cui la metafora della colonizzazione cieca e violenta è mitigata dalla capacità di un uomo giusto di comprendere, cambiare e guidare una rivolta contro i suoi stessi soppressori, che siano indiani, giapponesi o indigeni Na'vi. È lì, in quel finale fragoroso, che la ricchezza del film di Cameron si perde un po' e la spettacolarità, nel senso più nobile del termine, perde la sua unicità e fa tornare il film sulla terra a contare i biglietti che lo separano dal record di incassi della storia del cinema.
Movieplayer.it
4.0/5