Umani, troppo umani
Il fascino dei carrugi, la magia dei vecchi palazzi scrostati dalla salsedine e il profumo della brezza di mare che invade i vicoli, dopo tanti cantautori, hanno inebriato anche il regista inglese Michael Winterbottom che, proprio nell'antica Repubblica Marinara, ha ambientato il suo lavoro più personale, il delicato Genova. Una pellicola fatta di sguardi, di ombre, di primi piani insistiti sui personaggi, di sfocature e campi medi incollati a seguire il girovagare dei corpi. Una pellicola che riparte da zero (o quasi, almeno sul piano filmico) per ritrovare una purezza ormai sconosciuta nell'industria cinematografica più blasonata a cui siamo avvezzi, una purezza che per l'indipendente Winterbottom rappresenta un tentativo di creare una sorta di suo personale Dogma, in cui il vero cuore della ricerca sono le relazioni affettive che si instaurano tra i membri di una famiglia. Ai detrattori della pellicola che accusano Winterbottom di aver ecceduto nell'effetto cartolina realizzando una pellicola a rischio 'effetto spot turistico' per la città di Genova si può rispondere ammettendo che un fondo di verità c'è. La città della Lanterna si fa, infatti, personaggio tra i personaggi e, come conferma lo stesso regista, gran parte della tensione presente nel film, delle presenze fantasmatiche che lo animano e delle luci fosche che scontornano la vicenda sono necessariamente debitrici dell'atmosfera ambigua e sonnolenta, di quell'umanità decadente che anima Genova, i cui contrasti luce/ombra si scostano nettamente dal candore accecante e gelidamente compatto della neve dell'Illinois in cui si consuma il drammatico incipit.
Genova è un film sull'elaborazione del lutto, sull'incomunicabilità tipica dell'adolescenza, sulla scoperta di un nuovo mondo, sulla relazione tra un padre e due figlie e su quella tra vivi e morti, sulla 'corrispondenza d'amorosi sensi' che dimostra una volta di più come le persone care, anche dopo la morte, continuino a esserci vicine e partecipi. Winterbottom riduce al minimo il plot della pellicola confezionando un'opera dove, dopo il primo sconvolgente quarto d'ora, non accade più molto, ma tutto si gioca sul filo del sentimento e dell'impalpabilità. In questo senso a favore dell'opera giocano le straordinarie interpretazioni del cast, con un Colin Firth sul cui talento nessuno ha mai dubitato qui surclassato dalle due giovani attrici che lo affiancano, la bellissima e ombrosa Willa Holland, riservata adolescente alla scoperta del sesso e della trasgressione, e la straordinaria Perla Haney-Jardine, che fornisce la migliore prova attoriale di Genova in veste di figlia minore tormentata dai sensi di colpa per la morte della madre e allontanata dalla sorella che tenta di recidere il cordone ombelicale in cerca di indipendenza. Ad affiancare il nucleo familiare trapiantato in una realtà sconosciuta interviene l'ottima Catherine Keener, appesantita nel fisico, ma rafforzata nella presenza scenica, mentre poco convince la recitazione dei membri del cast italiani che hanno ruoli sì ruoli marginali, ma in alcuni casi (come in quello della studentessa che corteggia il professore vedovo Colin Firth) di un certo interesse. Lo stile documentaristico adottato da Michael Winterbottom, supportato da un notevole lavoro di montaggio che contribuisce a minimizzare i punti deboli della pellicola, si sposa perfettamente alla volontà di fotografare lo smarrimento dei membri della famiglia dopo la perdita della madre, così come il vagabondaggio dei personaggi e le ripetute esplorazioni del labirinto di carrugi ne oggettivano l'inquietudine e la ricerca di nuovi punti di riferimento. La geografia tracciata nell'opera di Winterbottom getta le basi per quella che si profila come una mappa ideale dell'anima, per una volta tutta italiana.Movieplayer.it
3.0/5