Placido tra ricordo e utopia
Il filtro del passato serve ancora per dirci qualcosa sul presente che viviamo? Ne è convinto Michele Placido che, dopo il riuscito Del perduto amore, torna a scavare nel proprio passato per raccontarci un pezzo della nostra storia. Dalla sperduta Lucania degli anni '50 veniamo improvvisamente catapultati nel 1968 romano, tra occupazioni studentesche, attivismo politico, proteste contro la guerra in Vietnam e scontri di piazza tra studenti e polizia (tra i quali il più celebre, quello di Valle Giulia, da cui Pier Paolo Pasolini prese le distanze con una polemica composizione poetica). Da Bertolucci ad Ang Lee, molti autori hanno sentito e sentono il bisogno di raccontare il punto di svolta del 1968, momento chiave vissuto sulla propria pelle o solo auspicato da lontano. Per Placido l'esigenza è doppiamente più forte visto che il 1968 coincide con l'abbandono di un lavoro sicuro in polizia per tentare la carriera dell'attore. A incarnare il regista nel film è il corrucciato Riccardo Scamarcio che si produce in una discreta imitazione del sanguigno Placido senza riuscire a scrollarsi di dosso del tutto quel finto-stupito candore che ultimamente contraddistingue i personaggi da lui interpretati, portato stucchevolmente all'eccesso da Costa-Gavras nel recente Verso l'Eden.
Nonostante le polemiche che hanno preceduto e accompagneranno ancora per un bel pezzo Il grande sogno - polemiche ulteriormente alimentate dal carattere iracondo di Placido - influenzando inevitabilmente le opinioni sul film, possiamo sfatare ogni dubbio affermando che, a nostro giudizio, la pellicola in questione è un discreto lavoro che unisce ricostruzione storica a dramma borghese, suggestive scene di massa a momenti di intimità sessuale, incluso un nudo frontale della pudica Jasmine Trinca. Che le prime a mettere in pratica i principi della liberazione sessuale fossero le ragazze di buona famiglia e di educazione cattolica già lo sospettavamo, ma mostrarci tale paradigma esplicitamente espone il film a rischio 'luogo comune' e i momenti del genere abbondano soprattutto nella rappresentazione delle relazioni che intercorrono all'interno della famiglia borghese a cui il personaggio della Trinca appartiene. Decisamente più interessante la ricostruzione delle lotte sessantottine all'interno e all'esterno dell'università, ricostruzione incentrata sulla presa di coscienza degli studenti di estrazione borghese, ma anche su quella di un giovane agente di polizia appassionato di teatro e non di politica. Placido, che quando vuole sa essere un buon regista e Romanzo Criminale ne è la conferma, filma con eleganza e un pizzico di autocompiaciuto manierismo concitate scene di scontri tra studenti e polizia in cui il colore e il bianco e nero 'old style' si alternano a ricreare il look di un'epoca. Ovviamente rimestare nel passato facendo affidamento principalmente sulla propria memoria è sempre rischioso e Placido mette le mani avanti sottolineando come il suo film, più che un affresco storico, vuole essere un diario privato, una ricostruzione della sua gioventù non priva di qualche anacronismo, ma sincera e appassionata. Se la passione non manca, talvolta è l'originalità a difettare. Il film non si sforza di dirci niente di nuovo su un mondo che ci ha profondamente influenzati, ma di cui la nostra generazione ha sentito parlare solo a posteriori, spesso in maniera critica, vista la degenerazione dei movimenti di contestazione dell'epoca culminata negli Anni di Piombo e nel Brigatismo. Gli eventi topici del '68, dalla morte di Che Guevara alle lotte contadine in Sicilia, fino alla manifestazione contro Nixon del 1969, vengono accennati senza alcun approfondimento né incidono in modo specifico sulla maturazione ideologica dei protagonisti del triangolo sentimentale messo in scena da Placido. A dirla tutta all'interno dello stesso triangolo vi è un certo sbilanciamento perché se dal canto suo la Trinca, in quanto donna, volitiva e talentuosa, ruba spesso la scena ai due colleghi, e Scamarcio viene necessariamente protetto grazie al ruolo che gli è stato assegnato, Luca Argentero si dimostra l'anello debole della catena e stavolta non per colpa sua. Nonostante i lenti miglioramenti in campo recitativo che lo portano a non sfigurare nel cast, al suo attivista politico belloccio e appassionato viene riservato un ruolo tutto sommato non di primo piano, privo di picchi e con una o al massimo due scene veramente interessanti che molto poco ci dicono sul personaggio. Che sia una scelta ragionata per impedire al povero Argentero di far danni? Conclusione idealistica venata da un pizzico di retorica. Il film finisce come deve finire (Placido direbbe "come sono andati i fatti in realtà") senza grandi sorprese, convincendo solo in parte. Come dicevamo prima l'autobiografismo e la passione genuina per fatti realmente vissuti sulla propria pelle accostano Il grande sogno al più riuscito Del perduto amore, ma paradossalmente i mezzi in più a disposizione di Placido e l'ambizioso affresco degli anni caldi della contestazione prendono la mano al regista che perde di vista la misura e il calore della sua precedente pellicola. Chissà, forse possiamo esprimere anche il nostro 'grande sogno', quello di veder tornare Placido a confrontarsi con una dimensione più umana e meno epica, sporcandosi di più le mani con il suo e il nostro passato.Movieplayer.it
3.0/5