Polverose visioni del subconscio
A quattro anni di distanza da La sorgente del fiume Theo Angelopoulos torna ad affrontare i temi fondanti della sua poetica: la persistenza della memoria, la dimensione immaginifica del subconscio, la ciclicità temporale, l'amore, la morte e l'immancabile riflessione sulla natura intrinseca dello strumento cinematografico come veicolo privilegiato della narrazione. La polvere del tempo è una pellicola potente e a tratti volutamente incomprensibile, un'opera criptica e mastodontica difficile non solo da giudicare, ma anche da far propria durante la visione proprio perché ostinatamente appartenente a un cinema d'autore i cui stilemi si stanno ormai disperdendo nella produzione contemporanea. Saranno le immagini della Berlino cupa e nebbiosa in cui la pellicola è in gran parte ambientata, ma La polvere del tempo ricorda molto da vicino il Wenders più poetico de Il cielo sopra Berlino anche a causa della presenza di Bruno Ganz, qui nei panni dell'eccentrico Jacob, uno dei due uomini amati dalla volitiva Eleni (la splendida Irène Jacob). Il gioco di specchi autobiografico che sottende il film si focalizza sulla figura del protagonista, interpretato da Willem Dafoe, regista intento a preparare una pellicola dedicata alla storia d'amore vissuta dai suoi genitori che però non vuol saperne di venire alla luce.
Alla crisi creativa corrisponde una dolorosa crisi esistenziale che sembra aver colpito tutti i personaggi condannandoli all'inazione e paralizzandoli in una perenne attesa della morte. La minaccia di una fine imminente domina la quotidianità contagiando perfino la giovanissima Eleni, figlia adolescente di Dafoe, fino a spingerla a tentare il suicidio. Alla morte fisica corrisponde la dissoluzione della memoria, l'impossibilità non solo di rivivere il passato, ma addirittura di rappresentarlo se non attraverso un cumulo di immagini caotiche impossibili da collocare in un unicum temporale visto che sono semplici proiezioni della psiche mai verificatesi nella realtà. La polvere del tempo procede così all'insegna della discontinuità spazio-temporale che veicola in modo confuso atmosfere e sentimenti lasciando allo spettatore il compito di ricostruire il complicato sottotesto narrativo. Non mancano squarci lirici, momenti di grande cinema in cui potenti immagini metaforiche si cristallizzano universalizzando il proprio significante, ma queste epifanie rappresentano purtroppo solo flash isolati soffocati nel marasma di una pellicola che scorre con inevitabile pesantezza senza mai lasciar intravedere spiragli di levità. Che sia realmente accaduto o no, il triangolo amoroso tra Eleni/Irène Jacob, Spiro/Michel Piccoli e Jacob/Bruno Ganz è decisamente la cosa migliore della pellicola, un amore che si dipana per più di cinquant'anni e che viene ricostruito in maniera caotica riservando attimi di eternità tra danze, prigionia, fughe precipitose, allontanamenti forzati e dolorose riconciliazioni. La poesia delle dinamiche sentimentali espresse dai tre straordinari attori compensa la piatta inanità del presente che si trascina faticosamente fino al drammatico epilogo. La polvere del tempo si conclude con una corsa disperata e liberatoria allo stesso tempo di Jacob insieme alla nipote Eleni. Alle loro spalle la porta di Brandeburgo, simbolo di una città capace di risorgere dalle proprie ceneri e immersa in un eterno presente. Sopra di loro il cielo di Berlino candido e gonfio di neve, mentre i fiocchi continuano a cadere e cadere e cadere...
Movieplayer.it
2.0/5