Recensione Zero Dark Thirty (2012)

Oltre che un thriller politico di ottima fattura, Zero Dark Thirty è (soprattutto) la narrazione di una sfida che si fa ossessione: quella che l'agente della CIA Maya, con caparbia determinazione, muove al nemico numero uno degli USA.

Racconto di un'ossessione

Quello che, passato solo un mese dall'inizio di questo 2013, è già tra i più accreditati candidati al titolo di "film dell'anno", è infine in arrivo nelle nostre sale. Zero Dark Thirty, thriller spionistico in cui Kathryn Bigelow racconta con dovizia di particolari l'uccisione di Osama Bin Laden, è stato accompagnato, già molti mesi prima della sua uscita, da una scia di discussioni e polemiche degne dei migliori "casi" cinematografici: accuse, da sinistra, di fascismo e di apologia della tortura, controaccuse da parte della CIA di aver enormemente esagerato l'importanza di certe tecniche di interrogatorio "duro" (curioso che per definire una pratica come il waterboarding, che nel film è mostrata in tutto il suo orrore, si usi ancora questo eufemismo), rinvii dell'uscita per paura di influenze sulla campagna presidenziale americana, accuse a membri dell'intelligence di aver fornito informazioni riservate per la ricostruzione della vicenda. Un bailamme di polemiche un po' insolito, e insolitamente proveniente da ogni angolo e direzione, per un film che doveva essere la celebrazione "istituzionale" di un'operazione chiave per la storia americana recente; un'azione che aveva (anche) il compito dimostrare la rinnovata efficacia dell'intelligence statunitense sullo scacchiere mondiale (pur declinata nella sua variante "di testa", incarnata dall'amministrazione Obama, anziché in quella muscolare - e repubblicana) con l'eliminazione del nemico per eccellenza dell'ultimo decennio.


Per raccontare la vicenda, snodatasi nel corso di dieci anni, che ha portato all'uccisione del capo di Al-Qaeda, la regista e lo sceneggiatore (e suo compagno) Mark Boal hanno attinto a un'enorme quantità di materiale; producendone poi altrettanto dal punto di vista cinematografico, se è vero che dal risultato finale, il cui cut giunge comunque al considerevole totale di 157 minuti, sono state espunte circa 3 ore di girato. Siamo dunque di fronte a un approccio documentaristico (come da più parti è stato scritto) in cui in primo piano c'è l'attenzione alla minuziosa e dettagliata ricostruzione dei fatti? Ciò è vero solo in parte. La Bigelow e Boal, con questo Zero Dark Thirty, hanno centrato il bersaglio (e ci si perdonerà la scontata metafora, dato il tema del film) in molti sensi: il primo di questi è certamente l'aver confezionato un prodotto compatto, dalla narrazione equilibrata e senza sbavature, che nella sua estensione temporale e spaziale (un decennio tra i corridoi della Casa Bianca, l'inferno dimenticato del carcere di Guantanamo, i deserti del Pakistan e dell'Afghanistan) non cede mai nella sua metronomica struttura da thriller; mantenendo, soprattutto, alta la tensione di una storia di cui si conosce benissimo il finale. La piattezza narrativa del televisivo Code Name: Geronimo (stesso tema e uscita quasi contemporanea, ma tutt'altro clima) è solo un lontano ricordo. Se è vero che la ricostruzione del film mostra i fatti bandendo ogni enfasi o retorica, è altrettanto vero che la drammatizzazione della vicenda (altro termine usato a sproposito da chi ha attaccato la pellicola) è forte e cinematograficamente efficace. Quello della Bigelow si dimostra ancora una volta (casomai ce ne fosse bisogno) Cinema con la C maiuscola, capace di inchiodare gli occhi dello spettatore allo schermo usando i suoi soli mezzi.

Il film inizia con la registrazione audio dei drammatici momenti degli attentati dell'11 settembre, con le voci dei passeggeri degli aerei e delle persone intrappolate nel World Trade Center su uno sfondo totalmente nero. E' forse questo avvio l'unica concessione della regista (probabilmente inevitabile) a un'emotività che fa ricorso a mezzi ed eventi extra-cinematografici: subito dopo, il focus della storia si concentra sul personaggio dell'agente della CIA Maya (interpretata da un'ottima Jessica Chastain) e sulla sua personale sfida (che nel corso della vicenda si trasforma sempre più in un'ossessione) per giungere all'identificazione del nascondiglio di Bin Laden. Lo script delinea in modo magistrale il carattere di questa donna forte, a cui il "mistero" sulla sua vita personale (di cui ci vengono svelati scarsi dettagli) non toglie nulla in termini di credibilità e capacità di generare empatia. Dapprima attonita di fronte alle torture, poi sempre più concentrata su un obiettivo che gradualmente diventa la sua unica ragione di vita, la donna fa pubblica mostra di freddezza e determinazione, contraltari perfetti dell'inferno che capiamo agitarsi nella sua anima. Una lotta che si scontra con un maschilismo strisciante ma sempre presente nel suo ambiente, anch'esso descritto dalla sceneggiatura in modo intelligente, non esplicito ma per questo tanto più pervasivo. La forza e la vera e propria "vocazione" della protagonista saranno messe a dura prova durante i dieci anni del suo lavoro, non nascondendo momenti di umanissima fragilità; ma ponendo, al contrario, in primo piano una femminilità intensa, fin troppo facile da accostare a quella (altrettanto peculiare, e difesa nel corso degli anni coi risultati del proprio lavoro) della stessa regista. Un'operazione di portata e conseguenze internazionali che diventa sfida e lotta personale e addirittura intima, conclusa in un finale di grande impatto, emotivamente forte e coerente con la costruzione drammatica del film.
Registicamente, Zero Dark Thirty è un film teso, avvincente, diretto con la consueta maestria. Posto che le tanto discusse scene del waterboarding non risparmiano nulla in termini di graficità e di impatto della messa in scena (e che, guardandole, difficilmente si può giungere alla conclusione di un qualche "avallo" di una pratica del genere) le poche sequenze d'azione disseminate per il film ribadiscono la padronanza tecnica di una cineasta tra che è tra i personaggi più dotati del cinema degli ultimi 30 anni. Due, in particolare, le sequenze magistrali, in cui la Bigelow fa mostra di tutta la sua abilità nel generare ritmo e tensione: la tesissima visita di uno sceicco pakistano presso la sede di una base statunitense, impreziosita da un ottimo uso del montaggio, e la lunga, straordinaria scena dell'assalto finale all'abitazione di Bin Laden. Nel resto del film, una tensione continua che, grazie alla già citata, perfetta struttura narrativa, mantiene sempre viva l'attenzione dello spettatore, puntando in misura progressivamente crescente il suo obiettivo sulla lotta della protagonista. L'essere riusciti ad arrivare a ciò con un film così asciutto nei toni, e così depurato da ogni forma di retorica, è l'altro miracolo compiuto dalla coppia Bigelow/Boal. L'Academy, almeno stando alle sue scelte in fase di nomination, sembra essersi mostrata stavolta piuttosto fredda; ma il suo verdetto, per noi, non è poi così determinante.

Movieplayer.it

4.0/5