C'è chi dice da tempo che il western, una volta orgoglio di Hollywood e del cinema americano e nostrano, sia morto da tempo. Puntualmente poi arrivano (grandi) film che non solo smentiscono la teoria di cui sopra, ma dimostrano piuttosto come si tratti invece di un genere in grado di rinnovarsi ed adattarsi costantemente. È il caso dei cosiddetti neo-western, ovvero film che utilizzano convenzioni e strumenti tipici di un cinema ormai lontano, ma sono ambientati nel nostro tempo e basati su temi e valori contemporanei.
Il titolo più famoso è chiaramente quello dei fratelli Coen che dieci anni fa conquistò l'Oscar per il miglior film, ma non stati pochi i registi che si sono cimentati in tentativi simili. L'anno scorso, per esempio, Hell or High Water di David Mackenzie è stato riconosciuto tanto dall'Academy che dai critici di tutto il mondo come una delle grande sorprese del 2016 cinematografico, e non è quindi un caso che una delle stelle più luminose di questa 70esima edizione di Cannes sia proprio Wind River, pellicola d'esordio per Taylor Sheridan che da talentuoso sceneggiatore (Sicario oltre che HoHW) diventa regista. Anzi, a guardare questa prima opera, un signor regista.
Neve e sangue
Ambientato nella riserva indiana che dà il titolo al film, nell'innevato e gelido Wyoming, il film prende il via con la scoperta del cadavere di una giovane nativa americana da parte di un agente della Fish & Wildlife (Jeremy Renner) con un tragico passato ed un legame speciale con la gente del luogo. Ad aiutare la polizia locale arriva da Las Vegas una giovane agente FBI (Elizabeth Olsen) per nulla preparata a quello che la aspetta: nè le temperature quasi proibitive né una crescente difficoltà a collaborare da parte di tutti coloro che popolano questa terra inospitale di cui tutti si sentono padroni ma tutti possono essere vittime.
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Così come in Hell or High Water e in fondo anche in Sicario, Sheridan parte da un soggetto classico e già visto tante volte per costruirvi attorno una sceneggiatura di genere solidissima in cui non mancano battute memorabili ("Avrei voglia di combattere il mondo intero, la conosci questa sensazione?" "L'avevo anche io. Poi ho scelto di combattere la sensazione, perché il mondo avrebbe vinto") o momenti emozionanti e di grande sincerità: è soprattutto nei dialoghi tra i due protagonisti o con il padre della ragazza uccisa che emerge la vera natura del film, uno sguardo ad un'America che sembra fuori dal tempo e fuori dalle regole, una terra di frontiera che resiste ancora oggi sotto l'indifferenza di tutti e le cui vittime principali sono proprio coloro a cui quelle terre sono state date come risarcimento per gli orrori e le ingiustizie di una volta.
Il grande silenzio
Alla bravura dello Sheridan sceneggiatore si unisce uno sguardo cinematografico sorprendentemente maturo e misurato che sembra rifarsi al cinema western di maestri quali Sergio Corbucci e Sam Peckinpah e che, grazie all'ottima fotografia di Ben Richardson (Re della terra selvaggia), unisce sequenze naturalistiche molto suggestive ad improvvise esplosioni di violenza che tengono sempre altissima la tensione. Altra garanzia di qualità è la colonna sonora firmata dalla coppia Warren Ellis/Nick Cave - ormai marchio di fabbrica del western contemporaneo (La proposta, L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, lo stesso Hell or High Water) - che contribuisce all'atmosfera e detta il ritmo del film in un crescendo di tensione che sfoga in un finale catartico ma comunque aperto.
Questo perché Sheridan sfrutta i topoi del genere ma riesce a non cadere nella trappola di spiegarci o mostrarci tutto: i suoi due protagonisti funzionano benissimo insieme anche se il loro rapporto non è necessariamente di tipo romantico, ma anzi proprio per questo il legame (professionale e personale) che si crea diventa più vero e forte, e per questo credibile. Merito anche degli attori "marveliani" qui in ruoli molto diversi da quelli a cui siamo stati abituati recentemente: Jon Bernthal per esempio abbandona i panni del Punisher e diventa "distruttibile" e dolente ed Elizabeth Olsen continua a convincere per la naturalezza, e apparentemente facilità, delle sue performance, anche quando di magico non ha altro che il suo sguardo. Ma è Jeremy Renner a rubare la scena in più di un'occasione, con la sua interpretazione migliore dai tempi di The Hurt Locker: una performance struggente e potente per un personaggio che è al tempo stesso vincitore e vittima di un mondo che non prevede eroi ma solo sopravvissuti.
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Movieplayer.it
4.0/5