Utopie per un millennio migliore
Nel 2000 le Nazioni Unite si sono date otto obiettivi da raggiungere entro il 2005 dai contorni decisamente utopici. E' possibile sradicare davvero la fame e la povertà nel mondo? Si è disposti sul serio a far qualcosa per far bene all'ambiente piuttosto che distruggerlo o a dare la chance ai paesi più poveri di uscire dalla propria miseria attraverso lo sviluppo di un commercio interno? A noi sembrano sogni difficilmente realizzabili piuttosto che obiettivi da soddisfare entro una scadenza rigida, tanto è vero che ad oggi nessuna delle potenze mondiali sembra averli presi in minima considerazione. Eppure una carta con tali promesse esiste, è stata firmata dai 191 paesi facenti parte dell'ONU e per far conoscere i suoi contenuti è stato ora realizzato un film collettivo, indipendente però dall'organizzazione alla quale fa riferimento, che ha chiamato a raccolta otto famosi registi che hanno dovuto confrontarsi ognuno con un diverso obiettivo. Buone quindi le intenzioni che hanno portato i produttori a contattare nomi illustri del panorama cinematografico mondiale che si sono messi in gioco, adottando un punto di vista personale sul tema che si sono visti assegnare, e assumendosi quindi la totale responsabilità del proprio operato. E proprio per questo l'ONU ha scaricato il progetto quando i produttori si sono opposti all'ordine proveniente dai piani alti di eliminare il segmento di Mira Nair, chiamata a parlare delle pari opportunità delle donne, nel caso specifico delle donne mussulmane. A qualcuno il suo corto non sembra però essere piaciuto, considerato offensivo nei confronti dell'Islam.
Sterili polemiche che hanno sottratto alle Nazioni Unite una buona occasione per supportare un progetto che mirava unicamente a illustrare una sua giusta e condivisibile iniziativa. Un film che si offre allo spettatore come un pacchetto unico merita di essere valutato nella sua interezza, perché i confronti tra episodi riusciti e altri dimenticabili possono risultare ovviamente inutili, tanto più se si considera il motivo che ha determinato la realizzazione di Eight: far conoscere alle persone le promesse che i membri dell'ONU si sono impegnati a mantenere e che mirano a un miglioramento delle condizioni di vita dei paesi poveri. Considerate quindi nel loro complesso, le otto differenti opere che compongono il film riescono pienamente nel loro intento, cioè promulgare e far riflettere su temi così importanti. A colpire maggiormente sono gli episodi che affondano le radici delle proprie storie in culture complesse che riescono a fornire materiale anche visivamente interessante e ad essere perciò davvero efficaci. In particolare, Jan Kounen e Abderrahmane Sissako parlano rispettivamente di salute materna e sradicamento di fame e povertà nel mondo in maniera asciutta eppure toccante. Il primo ci regala un emozionante requiem per una donna squassata dalle difficoltà del parto, una storia che viene dalla tradizione amazzone e che sullo schermo si riempie del pathos di potenti immagini in bianco e nero e di lamenti che si sporcano di lacrime.
Mira Nair tenta invece di raccontare l'indipendenza di una donna mussulmana tra le mura domestiche di un appartamento di Brooklyn e sebbene la sincerità dei suoi intenti è palpabile, la resa filmica lascia alquanto a desiderare perché propone una parentesi familiare dai contorni sfocati ma dall'attitudine rivoluzionaria nell'ambito della cultura in cui si iscrive, senza che la regista abbia il tempo necessario a dargli quel calore necessario a renderla d'effetto. Jane Campion poi prova a trattare il tema ambientalista con ambizioni fin troppo alte, scivolando in una poesia forzata e ingombrante che risulta spesso fastidiosa: nuvole cadute sulla Terra, materassi che zompettano su una collina a mo' di Teletubbies, lacrime da conservare in barattolo e violiniste per parlare della scarsità dell'acqua? Qualcosa ci sfugge. Inconcludente anche il tentativo di Gael Garcia Bernal, alla sua prima volta dietro la macchina da presa, che s'inventa una cartolina dall'Islanda per esortare a un'istruzione per tutti, senza trovare però la giusta chiave di lettura del problema, mentre Gus Van Sant recupera i ragazzini in skateboard di Paranoid Park limitandosi a creare uno sfondo dal fascino magnetico, per la combinazione di immagini e musica, a una serie di agghiaccianti statistiche sulla mortalità infantile che contrastano con la libertà della gioventù americana.
Si affida invece alla voce fuori campo di un uomo contagiato dal virus dell'HIV, Gaspar Noé che ci sputa nelle orecchie il problema dell'AIDS, tra le maggiori cause di morte nei paesi africani. Limitandosi a riprendere il protagonista sul suo letto d'ospedale in Burkina Faso, il regista realizza un efficace fotografia del problema, ritrovando in Dio e nella religione l'unica speranza di sopravvivenza per questi uomini. A chiudere Eight l'episodio dalle sfumature decisamente trash firmato Wim Wenders che entra in una redazione tv e fa uscire da monitor e televisori una variopinta e spumeggiante umanità di poveracci che ricordano all'uomo occidentale che basterebbe davvero poco per permettere lo sviluppo del Terzo Mondo, con l'illustrazione del microcredito come possibilità di partnership globale che favorirebbe lo sviluppo del commercio interno. Opinabile in quanto a realizzazione, l'episodio cattura comunque la nostra attenzione e riesce nel suo intento di smuovere le coscienze, invitando all'azione. E l'esortazione conclusiva ai paesi ricchi affinché mantengano le ambiziose promesse, supportata anche dalla voce di Bono Vox che dal palco invita i grandi della Terra a darsi una mossa in questo senso, fa da conclusione ideale a un film che va necessariamente oltre il valore artistico (a tratti desolante) per farsi portavoce di una lodevole iniziativa. Alla fine del film i famigerati otto obiettivi ci appaiono ancora utopie, ma almeno si impara a conoscerli e se un cambiamento può dirsi in qualche modo fattibile, è solo la conoscenza che può favorirlo.