Per il grande pubblico e gli affezionati di Narcos è e rimarrà a lungo Pacho Herrera, rivale storico di Pablo Escobar che nella terza stagione della serie Netflix diventerà con il cartello di Cali il protagonista indiscusso, il nuovo cattivo dopo la morte del numero uno del narcotraffico. La carriera dell'attore argentino Alberto Ammann era però già cominciata nel 2011 sotto la buona stella del dramma carcerario Cella 211, miglior attore rivelazione ai Premi Goya 2010. Dal 25 gennaio lo ritroviamo nella serie Netflix Griselda, di nuovo in abiti criminali, questa volta in quelli del secondo marito di Griselda Blanco, il trafficante Alberto Bravo che aiuterà la "madrina della droga" a conquistare l'America.
Ma dal 1 febbraio è in sala con Upon Entry - L'arrivo di Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez, un film indipendente che lo porta lontano dai territori esplorati fino ad ora: qui è Diego che insieme alla compagna Elena decide di trasferirsi da Barcellona negli Stati Uniti inseguendo il sogno di una nuova vita. Al controllo immigrazione dell'aeroporto di New York, nascono però i primi problemi con gli agenti di frontiera che sottopongono la coppia ad un estenuante interrogatorio. Un thriller claustrofobico, che si consuma tra le quattro mura di una stanza. Ecco cosa ci ha raccontato in attesa di rivederlo alle prese con "un personaggio molto estremo e divertente" in Disco, Ibiza, Locomía commedia drammatica sulla storia del gruppo pop spagnolo dei Locomía, che fra gli anni '80 e '90 conquistò i club di mezzo mondo.
La prima scena del film si apre sulle parole di un notiziario che annuncia la costruzione del muro ai confini tra Messico e Stati Uniti. Sono gli anni dell'amministrazione Trump. Oggi nel 2024 si torna a parlare dell'ex presidente e di una sua quasi certa rielezione. Che effetto le fa?
Non mi sorprende affatto, fa parte di un'ideologia diffusa ormai in tutto il mondo, lo vedo succedere ovunque: in Argentina con quel pazzo con la motosega (Javier Milei) o qui in Italia con Giorgia Meloni. Si tratta di estremizzazioni costanti, è tutto propaganda compresa la questione del muro: non lo faranno mai, ma è un modo per mantenerci divisi. Stiamo assistendo alla polarizzazione di tutte le situazioni, quasi una "calcisticazione" di qualsiasi contesto: se sei del Madrid non puoi essere amico di un tifoso del Barcellona, così come non si è possibile essere amici tra gente di destra e di sinistra. Come se non ci potesse essere un'amicizia o non si potessero fare affari tra persone che la pensano diversamente, devi scontrarti per forza. Oltre a essere divisivo tutto questo è molto infantile; in Argentina conosco famiglie completamente divise e che per questo motivo non si parlano, mi chiedo quanti anni abbiano per ragionarla così.
Upon Entry - L'arrivo racconta una situazione verosimile, si ispira infatti ad alcune esperienze vissute dai registi stessi del film. Pensa di aver mai subito delle discriminazioni negli Stati Uniti in quanto sudamericano?
A me non è mai successo, né ne avevo mai sentito parlare, ma durante le proiezioni del film ogni volta almeno quattro o cinque persone si sono avvicinate per dirmi che gli era capitata esattamente la stessa cosa di cui si parla in Upon entry-L'arrivo. Si tratta di situazioni di cui spesso la gente non ama parlare e che ognuno tiene un po' per sé, nel proprio ambito familiare; appartengono allo stesso universo di una violenza o un abuso sessuale, ci si sente in qualche modo violati e abusati. Durante la serata di presentazione dei candidati al premio Gaudí lo scorso anno, uno dei grandi registi presenti (ma non vi dirò chi) si è avvicinato per farmi i complimenti per il film e mi ha raccontato che a lui era successa una cosa simile a New York. All'aeroporto dopo due ore di attesa al controllo per l'immigrazione decide di andare a lamentarsi con un addetto alla sicurezza che per tutta risposta gli chiede il nome, trova il passaporto e gli dice: "È questo vero?". Poi lo mette in fondo alla pila dei documenti che aveva accanto: "Adesso aspetti, arriverà il suo turno". È una situazione di abuso di potere che può succedere a chiunque.
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L'improvvisazione, gli spazi ridotti e la tensione costante
Il film cambia costantemente: comincia con una leggerezza insospettabile e poi diventa un thriller pieno di tensione. Al contrario il personaggio di Diego nasce già come lo vedremo durante l'intera vicenda, capiamo sin dall'inizio che forse ha qualcosa da nascondere. Qual è stato il suo lavoro d'attore?
Tutto viene da una sceneggiatura molto ben scritta a partire dai dialoghi, questo mi indicava già la strada da percorrere, mi dava una pista per lavorare e costruire Diego. Da un punto di vista psicologico era già più o meno chiaro come avrei dovuto impostarlo, ma in realtà mi sono ispirato a due miei amici che hanno più o meno alcune sue caratteristiche: da loro ho preso i tic nervosi di Diego, gli occhi, il modo di guardare le cose e il senso di paura di fronte alla situazione. C'è sempre un contatto quasi incosciente con la paura e anche quando i due protagonisti sono rilassati la tensione è costante. Ho lavorato sulla fisicità e sul corpo di Diego pensando a loro, anche se ancora non lo sanno! Ho vissuto il personaggio come se fosse un marziano che vive in un mondo parallelo, su un altro pianeta, un po' sconnesso. Sembra che ti stia ascoltando, ma in realtà sta pensando ad altro.
Quanto aiuta l'improvvisazione nel costruire un modello di cinema non canonico, che parte da un approccio quasi documentaristico, muta in cinema da camera e diventa thriller?
L'improvvisazione è stata fondamentale, abbiamo improvvisato soprattutto quando si spegneva la camera e in quei momenti il mio personaggio litigava tantissimo con l'agente Barret interpretato da Ben Temple, un americano che vive da trent'anni in Spagna. Ci attaccavamo, lo provocavo: "Tu che sei degli Stati Uniti dimmi dov'è la Francia, non ne hai idea", gli chiedevo; anche con Laura Gomez (l'agente Vásquez n.d.r) ci dicevamo di tutto, ci scontravamo in modo molto forte. Questo però ci aiutava a creare quella tensione anche tra di noi; è nato un po' per caso, ho iniziato io e loro mi hanno seguito. Era un modo abbastanza liberatorio, e anche aggressivo, di esprimere il pensiero che ciascuno aveva dell'altro; ci serviva per tirare fuori l'energia necessaria durante le riprese, che altrimenti non si sarebbe mai potuta ricreare.
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Il film si consuma quasi interamente all'interno delle quattro mura di una sala, dove spesso irrompono elementi del mondo esterno: rumori di lavori in corso, blackout improvvisi e luci che vanno e vengono. Quanto questa claustrofobia e il fatto di avere delle camere sempre puntate addosso hanno influenzato la costruzione del personaggio?
Tutta quella situazione di lavori in corso o di luci che non funzionano serve a smitizzare l'idea degli Stati Uniti come una navicella spaziale dove tutto funziona alla perfezione; al contrario è una situazione comune a molti altri luoghi del mondo con la sporcizia per terra e i rumori tutt'intorno. Lo spazio di tre metri e mezzo per tre metri e mezzo era così ridotto che non potevi nemmeno buttare giù una parete per fare un travelling o un'inquadratura completa dei due personaggi. Per il mio modo di lavorare non mi ha però condizionato, non avevo bisogno che l'ambiente fosse claustrofobico per immaginarmi in un posto claustrofobico, avrei avuto lo stesso tipo di approccio anche se tutto si fosse svolto in uno studio più grande. Lo spazio ridotto ha invece influito dal punto di vista registico, nell'avere punti macchina limitati o nella scelta degli obiettivi da utilizzare.
Ho invece lavorato molto sui silenzi di Diego e sulle sue attese quando si tratta di rispondere alle domande degli agenti: prima di parlare ci pensa sempre un po'. Ritardare la risposta alle domande genera un dubbio non solo negli spettatori, ma anche nei personaggi che lo stanno interrogando.
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La fine di un sogno?
Il film è una decostruzione del sogno americano, quello che Hollywood ci ha sempre venduto. Lei ha lavorato anche in produzioni mainstream, come Narcos per Netflix. Oggi ha ancora senso parlare di "american dream"? Crede che Hollywood possa essere l'occasione della vita?
Non ci ho mai creduto, come argentino ho sempre subito la politica estera statunitense e non penso che esista una terra promessa o una situazione negli Stati Uniti migliore che altrove. A livello cinematografico è un'industria con un'enorme quantità di soldi, le produzioni sono molto grandi. Se mi offrissero di lavorare con Nolan o Spielberg? Certo che ci starei, ma dipenderebbe dal tipo di film che mi proporrebbero di fare; quando ti viene offerta la possibilità di lavorare in un film con molti soldi dietro è sempre molto invitante, a patto che non vada contro i miei ideali. Nel cinema americano ci sono cose davvero interessanti, sia a livello intellettuale che economico, ma direi di no ad esempio alla parte di un inglese o americano statunitense, per via del mio accento, e non farei mai film che appoggiano dittatori come Videla, o che cerchino di ripulire l'immagine di quelle persone che hanno delle colpe con la storia.