Upon Entry - L’arrivo, la recensione: L’"incubo" del "sogno americano"

La recensione di Upon Entry - L'arrivo, un thriller da camera sul dramma della frontiera e atto di denuncia delle politiche migratorie degli Stati Uniti.

Upon Entry - L’arrivo, la recensione: L’'incubo' del 'sogno americano'

Un territorio marziano, una zona grigia e nebulosa fatta di luci al neon e interrogatori estenuanti, la sala di un aeroporto di New York nell'area destinata al controllo per l'immigrazione. Sono gli ingredienti di Upon Entry - L'arrivo (di cui vi proponiamo qui la recensione), thriller da camera orchestrato dai registi venezuelani Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez e ispirato in parte alle loro stesse esperienze di vita. Quella di chi, come i protagonisti di questo dramma dalle tinte quasi kafkiane, nel tentativo di costruire un futuro migliore in paesi lontani da quelli di origine, si ritrova in balia di agenti di frontiera inclini a decisioni spesso arbitrarie. Un film indipendente girato in diciassette giorni (e due di prove per gli attori) in uno spazio di tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, limitante e claustrofobico dove la tensione sale minuto dopo minuto.

Un thriller per raccontare il dramma della frontiera

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Upon Entry - L'arrivo: Bruna Cusí in una scena del film

Un dato su tutti: Upon Entry - L'arrivo è un film produttivamente molto piccolo, ma di rara potenza, merito di una sceneggiatura solida scritta con precisione quasi chirurgica, di scelte registiche sempre funzionali alla narrazione e di interpretazioni straordinariamente misurate e giocate sul filo delle parole e del controllo del corpo. Un'opera prima che utilizza facendoli propri i canoni del thriller e che sin dall'inizio (la prima scena si apre con un notiziario che annuncia la costruzione del muro al confine tra Messico e Stati Uniti nell'era dell'amministrazione Trump) rivela le proprie intenzioni: un atto di denuncia del sistema che regola le immigrazioni negli Stati Uniti.

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Upon Entry - L'arrivo: Alberto Ammann in una scena del film

Per il resto l'intero film gira vorticosamente attorno ai due protagonisti e agli spazi ristretti nei quali i registi decidono di recluderli: un taxi, un aereo e infine la piccola sala dell'interrogatorio nell'aeroporto di New York. Sono loro la vera forza centripeta di questo raro esempio di come attorno a poche righe di trama si possa costruire una storia ricca di colpi di scena e dal ritmo sostenuto. Elena (Bruna Cusí) fa la ballerina ed è catalana, Diego (Alberto Ammann) è un urbanista venezuelano che si è da poco trasferito in Spagna. Dopo aver convissuto a Barcellona insieme, i due decidono di trasferirsi negli Stati Uniti (grazie alla Green Card da lei vinta alla lotteria) mossi dal sogno di una nuova vita. Ma giunti negli uffici immigrazione dell'aeroporto di New York affiorano i primi problemi con gli agenti di frontiera che sottopongono la coppia ad un estenuante interrogatorio. Nelle ore successive il destino di Elena, Diego e dei loro sogni verrà messo in discussione dai metodi vessatori delle autorità che cercano di scoprire se la coppia ha qualcosa da nascondere. Il panico prende il sopravvento.

Killers of the Flower Moon è un racconto di frontiera al contrario

L'assedio dei personaggi

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Upon Entry - L'arrivo: Bruna Cusí, Alberto Ammann in un'immagine

La coppia arriva nella "terra promessa" attraverso un volo di linea e con un regolare permesso, ma poco importa: la routine burocratica e l'abuso di potere non fanno sconti a nessuno. Agli occhi degli agenti di frontiera Elena e Diego sono potenziali clandestini e questo basta perché inizi una pratica inquisitoria volta a smontare qualsiasi buona intenzione e a mandare psicologicamente a tappeto i due malcapitati. Attraverso il progressivo restringimento degli spazi intorno, già ridotti al minimo, Rojas e Vásquez mettono in scena il loro isolamento e portano lo spettatore nell'asfissiante esercizio di un interrogatorio serratissimo: niente contatti con l'esterno, via i telefonini, largo a un incalzar di domande snocciolate con implacabile indifferenza, riformulate più e più volte e pronte a violare l'intimità dei personaggi. Un vero e proprio assedio dove i rapporti di forza tra le quattro persone chiuse all'interno della grigia saletta aeroportuale, si sviluppano e si ricalibrano costantemente sotto l'occhio vigile dei registi, anche autori della sceneggiatura.

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Upon Entry - L'arrivo: Ben Temple, Laura Gómez in una scena del film

Se l'intento più manifesto è di realizzare un "dramma della frontiera", quello meno palese e prevedibile invece è di virare sul dramma intimo quando il dubbio finisce per insinuarsi anche nel rapporto tra Elena e Diego, che potrebbe non aver raccontato tutta la verità sul suo conto. Il potere ha così non solo la capacità di sbriciolare qualsiasi certezza umana, ma anche quella di invadere lo spazio privato e più intimo delle persone, una profanazione della dignità umana, che alla narrazione documentaristica o retorica preferisce il thriller costruito su due prove d'attore superbe: Alberto Ammann (che il grande pubblico ha imparato a conoscere come il Pacho Herrera della serie Netflix Narcos) e Bruna Cusí reggono per un intero film lo sguardo della camera sempre addosso, senza distanze di sicurezza, impauriti, assediati e indifesi prima che finiscano per essere addirittura sospettosi l'uno dell'altro.

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Upon Entry - L'arrivo: Bruna Cusí in una sequenza

Il meccanismo che governa la tensione della storia è il frutto della composizione geometrica di vari elementi: da un lato i loro silenzi, gli sguardi smarriti e i tentennamenti, dall'altro l'irrompere di elementi di disturbo provenienti dall'esterno come i continui blackout, i rumori ovattati dei lavoro in corso o gli improvvisi cambi di stanza. Se un tempo la frontiera del vecchio West rappresentava il mito del sogno americano, qui il confine è solo una zona d'ombra che sospende le identità. Simulacro del suo esatto contrario, feroce decostruzione dell'"american dream".

Conclusioni

Concludiamo la recensione di Upon entry-L’arrivo con un’unica raccomandazione: correte in sala. I venezuelani Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez realizzano un’opera prima di rara efficacia, un thriller da camera sulle politiche migratorie degli Stati Uniti, ispirato in parte alle loro stesse esperienze di vita. L’intero film gira vorticosamente attorno ai due protagonisti e agli spazi ristretti nei quali i registi decidono di recluderli: un taxi, un aereo e una grigia saletta aeroportuale. Lo script realizzato con precisione millimetrica e le superbe interpretazioni di Bruna Cusí e Alberto Ammann rendono ogni scena verosimile: il dubbio e la paura accerchieranno tanto i protagonisti quanto gli spettatori. Il ritmo serrato e la tensione crescente fanno il necessario per tenere il pubblico incollato allo schermo. Finale molto poco liberatorio, quasi beffardo, ma l’unico possibile.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
3.0/5

Perché ci piace

  • Una narrazione tesa che terrà lo spettatore incollato allo schermo dall’inizio alla fine.
  • Un thriller claustrofobico sostenuto da una solida sceneggiatura, scritta con una precisione chirurgica.
  • La scelta di ambientare l’intera vicenda in spazi chiusi e ridotti al minimo, ma gestiti alla perfezione dai due registi.
  • Le interpretazioni superbe degli attori protagonisti.

Cosa non va

  • Chi si aspetta un thriller canonico, si risparmi il prezzo del biglietto. Qui siamo in tutt’altro territorio.