Recensione Derailed Attrazione Letale (2005)

Se i limiti cinematografici del film sono tanti, segnanti ma forse perdonabili, sono quelli etico-morali ad affossare definitivamente questa pellicola più che trascurabile.

Una vendetta reazionaria

Sembra non avere più fine il proliferare di film che nelle ultime stagioni hanno affrontato il tema dalla vendetta. L'ultimo in ordine di tempo ad aggiungersi ad una lista già lunga e che comprende titoli prestigiosi come i Kill Bill di Tarantino e la trilogia di Park Chan-wook è Derailed Attrazione letale, esordio statunitense dello svedese Mikael Håfström, autore di quell' Evil che nel 2004 è stato candidato all'Oscar per il miglior film straniero.
Una vendetta, quella raccontata in Derailed, che però non possiamo raccontare nei dettagli per evitare dannosi spoiler: la trama del film sembra infatti non aver nulla a prima vista con questo tema. Il film si apre con la descrizione della vita routinaria e non pienamente soddisfacente di Charles, un uomo che trova però presto di fronte a lui la sirena tentatrice di una possibile evasione tra le braccia di un'altra. Possibile, perché al momento di concludere, nell'apparente tranquillità di una camera d'hotel, farà irruzione un ladro che rapina e pesta lui e violenta lei. Se questa brutta esperienza non bastasse, ecco che il ladro inizia a perseguitare il nostro protagonista, ricattandolo per cifre sempre superiori e minacciando la sua famiglia. Impossibilitato a contattare la polizia per via della sua quasi-amante, che non vuole mettere a rischio il suo matrimonio, l'uomo se la dovrà cavare da solo.

Derailed inizia quindi come un film sul tradimento (sulla scia di Attrazione fatale o L'amore infedele - Unfaithful) per poi trasformarsi in uno strano thriller, dove ai ricatti seguiranno vicende ancora più complesse. Se c'è un pregio nel film di Håfström è quello di (cercare di) rifuggire dalle patinature visive e non solo che una storia del genere potrebbe suggerire, senza nemmeno cadere eccessivamente nello stereotipo visivo dello sporco a tutti i costi. Anche i volti dei protagonisti, Clive Owen e Jennifer Aniston, riescono ad essere "comuni" ed "anonimi" quanto basta, lontani dalla messa in scena iconico-divistica di volti e corpi che Hollywood propone sempre più spesso.

Le note (lievemente) positive del film si fermano però qui. Non particolarmente originale nelle premesse, il film si sviluppa su binari risaputi, con un ritmo discreto ma mai davvero coinvolgente, per arrivare poi ad un twist-in-the-end (e qui si parla della vendetta di cui sopra) che sarebbe eufemistico definire telefonato. Ma è nella sua ambigua, strisciante natura di film moralista, forcaiolo e pseudo-fascista che il film incontra i sui problemi più grandi e insormontabili.

Il protagonista è infatti un uomo "comune", borghese per stile di vita e risorse economiche, che vede il suo mondo crollare quando si avvicina al solo pensiero dell'adulterio. Concetto espresso a chiare lettere dal villain di turno - uno sgradevole Vincent Cassel - che fa la paternale a Charles con chiose tipo:<< avevi tutto, te lo sei giocato per una scopata >>. Questo per quanto riguarda il moralismo, che si trasforma poi in qualcosa d'altro (e di peggiore) quando il ricattato si trasforma in spietato angelo vendicatore, che non solo porta a termine la sua missione in maniera infallibile, ma lo fa con l'assoluzione (postuma) di quanti avrebbero dovuto censurare il suo gesto. Una vendetta consumata più per motivazioni economiche che per altro, presentata come una becera conseguenza di una logica occhio per occhio, priva di alcuna rielaborazione concettuale e/o intellettuale che la possa presentare al pubblico in maniera meno manichea e fastidiosa, non "addolcita" nemmeno dalla necessità di Charles di rientrare in possesso dei soldi necessari per curare la figlia malata.
Insomma, se i limiti cinematografici del film sono tanti, segnanti ma forse perdonabili, sono quelli etico-morali ad affossare definitivamente questa pellicola più che trascurabile.