Il racconto del fallimento è una trovata adoperata spesso nel mondo del cinema data la sua capacità di essere plasmabile in diversi ambiti e secondo diverse dimensioni senza per questo perdere la sua enorme significatività. Essa ha infatti sempre un eco'universale, sia se riguarda un giovane studente e sia se riguarda un Paese intero. Il fallimento può essere rappresentato anche da una cosa piccola come una semplice spilla, ma comunque avere una risonanza collettiva.
Questa è la trovata al centro di Una spiegazione per tutto (un titolo già ironico e che richiama sin da subito proprio il fallimento data l'impossibilità dell'affermazione) del regista ungherese Gábor Reisz, la splendida pellicola vincitrice della sezione Orizzonti del Festival del Cinema di Venezia 2023 e al cinema con I Wonder Pictures. Un titolo in cui si fondono una ricostruzione quasi da cronaca, con una scrittura da trattamento per parlare della situazione politica e sociale di una Nazione.
Trionfo di scrittura denso (150 minuti circa pieni di dialoghi e di continui scambi di punti di vista) in cui si intrecciano le storie di più personaggi all'interno di una vicenda che occupa poco più di una settimana, ma che racconta di un'enorme frattura generazionale. Alla base la voglia di convogliare una natura evocativa, ma anche fortemente attacca alla quotidianità, che richiama sovrastrutture, ma segue un fil rouge in cui sono le vicende a misura d'uomo ad essere protagoniste. Cinema vitale, emozionante e soprattutto immediato, come una fotografia, anche se ha la capacità di riflettere sulle sue radici.
Tutto per colpa di un tricolore in miniatura
Abel (Adonyi-Walsh Gáspár) è un diciottenne di Budapest che si sta preparando a sostenere l'esame di maturità. Anche se, a dire il vero, arrivato all'estate conclusiva del suo percorso liceale, tutti i suoi interessi sembrano convogliare verso il mistero dell'amore, rappresentato dalla sua compagna di classe, Jankta (Lilla Kizlinger), e del futuro, da cui si protegge abbandonandosi alle celebrazioni con i suoi coetanei. Una dimensione che si muove intorno al presente e all'abbandono del raziocinio, delle ricette, dei libri e delle formule. Dunque uno status ben diverso da quello in cui è cresciuto tra famiglia e scuola, in cui tutti si affannano a trovare, appunto, una spiegazione per tutto.
In particolare lo fanno suo padre György (István Znamenák), un architetto conservatore e convinto sostenitore di Viktor Orbán, e il suo professore di storia, Jakab (András Rusznák), liberale e ovviamente avverso a quello che egli definisce "il regime" al potere nel suo Paese. Per tutti e due la politica è l'unica cosa che conta, al punto da essere entrambi fatalmente distanti da ciò che vivono tutti i giorni. Insopportabili per la famiglia e lontani dal comprendere coloro che gli sono accanto perché prede della stessa scissione che ha squarciato la loro comunità.
Sono loro, a ben vedere, le cause indirette del piccolo fallimento del ragazzo, che durante l'orale di Storia si blocca facendo scena muta perché, a suo dire, "stigmatizzato dagli astanti" per avere addosso la spilla tricolore dell'Ungheria, rimasta lì per una dimenticanza dopo di festeggiamenti del 15 marzo, festa nazionale in cui si celebra la Guerra d'Indipendenza del 1848. Una verità a metà pronta a rivelare un buco nero nel Paese, basta qualcuno che la renda totalmente vera, tipo una giornalista in cerca di uno scoop.
Un trattato universale mascherato da piccolo racconto
Riprendendo un'estetica e una volontà narrativa da Nouvelle Vague moderna (formato 4:3, colori a pastello e camera a mano per un racconto emozionale in cui rapporti umani servono per raccontare tematiche sociali), Gábor Reisz confeziona una pellicola incredibilmente attuale eppure dal sapore classico. Una spiegazione per tutto è espressione di un postmodernismo efficientissimo, che riesce a convogliare diversi registri linguistici creando qualcosa di contemporaneo, ma che dialoga continuamente con la propria matrice di provenienza.
Nove giorni e quattro personaggi per raccontare di un fallimento privato eco di quello di un Paese che sta disorientando le nuove generazioni, prese in un fuoco incrociato da coloro che invece dovrebbero sforzarsi di comprenderle. Gli stessi che invece non riescono a parlare neanche tra loro né, tanto meno, a fare i conti con il proprio passato. La sconfitta di Abel è, dopo tutto, il riflesso della loro sconfitta quotidiana. Così il film del cineasta ungherese diventa cronaca efficace di uno sfilacciamento collettivo causa della profonda crisi politica di un Ungheria ormai profondamente polarizzata.
La trovata del fraintendimento è geniale perché crea la necessità di un impossibile atto riparatorio. Di fronte a questo Una spiegazione per tutto si arrende, comunicando allo spettatore come la pace si può trovare solamente quando ci si fa guidare da una vicinanza che vada oltre qualsiasi tipo di schieramento, in modo da recuperare quella voglia di pensare alla vita e a ciò che la rende degna di essere vissuta. Universo in cui si muovono gli interessi e le voglie di un diciottenne, che pensa al corpo, alle sue mutazioni e alle sue voglie. Universo per il quale non è richiesta nessuna forma di spiegazione. Solo comprensione.
Conclusioni
Nella recensione di Una spiegazione per tutto di Gábor Reisz vi abbiamo parlato della splendida pellicola vincitrice di Orizzonti di Venezia 80. Un titolo che costruisce le sue fortune intorno al tema del fallimento, raccontando, con un linguaggio a metà tra cronistoria e trattato, una vicenda piccola, ma dal sapore universale. Un racconto di appena nove giorni trasformato in una lente straordinaria con la quale rivelare le fratture di un Paese che rischiano di distruggere un'intera generazione.
Perché ci piace
- La scrittura è coinvolgente, universale, intelligente.
- Regia e fotografia.
- La capacità di condensare diversi livelli.
- Un film moderno, ma legato alle radici.
Cosa non va
- La durata estesa e la verbosità può stancare.