Un'insonnia americana
New York: il centro del mondo nell'America delle contraddizioni e delle cicatrici aperte.
Travis Bickle (Robert De Niro) è un uomo solo. E' giovane, soffre d'insonnia ed ha un passato misterioso. Ma a New York non è importante il tuo passato se vuoi fare il taxi driver notturno per i sobborghi della città: dalle 18 alle 06, stretto in una morsa che toglie il respiro ed offusca la mente tra prostitute, spacciatori, violenza e prevaricazione. Un substrato brulicante ed oscuro che si ciba della notte e dei suoi stessi abitanti, un formicaio incontrollabile e nero che neanche la pioggia più fitta riesce a portare via. L'unico spiraglio è Betsy (Cybill Shepherd), una donna distaccata ed attraente che lavora per il senatore Pallantine (Leonard Harris) candidato alla presidenza. Betsy appartiene ad un mondo alieno per Travis, che nonostante gli evidenti contrasti s'innamora della donna. Si accorgerà presto, però, di aver scoperto solo un'altra faccia della stessa medaglia, un mondo che vive alla luce del giorno ma che si ciba d'ipocrisia ed arrivismo. Un mondo troppo complesso per il nostro protagonista, minato nella mente e soggiogato dall'ambiente circostante, che modificherà radicalmente il suo stile di vita assumendo comportamenti inaspettati ed esteriorizzando le sue nevrosi come un camaleonte assume la colorazione dell'ambiente che lo circonda.
Ma come in tutte le storie che si rispettino il deus ex-machina non si fa attendere e si presenta sotto la candida forma di una giovane prostituta sfruttata dal suo protettore Matthew (Harvey Keitel): Iris Steensma (Jodie Foster), una donna-bambina che per la seconda volta sconvolge la mente debole e corrotta del tassista. Peccato che questa volta la situazione salvifica non segue i canoni tradizionali ma assume le forme contorte degli ormai famosi paradossi della società americana.
Martin Scorsese, al suo quinto lungometraggio, entra nell'olimpo dei grandi registi portandosi dietro il grande Robert De Niro che comincia già a mostrare doti eccezionali. L'attore, per immedesimarsi nella parte, lavora per un mese 12 ore al giorno come tassista e studia le malattie mentali: indimenticabile la sua interpretazione, soprattutto in alcuni frangenti che saranno poi ripresi da regista ed attore 15 anni dopo nel remake Cape Fear - Il promontorio della paura. Una Jodie Foster quattordicenne, con ben 15 pellicole alle spalle, interpreta con padronanza e stile la sua pur breve parte ed Harvey Keitel è quasi irriconoscibile nella veste di "pappone" di periferia tutto chioma e muscoli. Cammeo per Martin Scorsese che invece interpreta un passeggero impazzito per il tradimento della moglie e che fa da detonatore per la successiva esplosione di violenza del protagonista.
Taxi Driver è ormai un cult-movie non solo per la feroce critica al sistema americano, presenza costante nei film del regista, ma anche per il taglio intimistico e per la precisa e sconvolgente descrizione del mondo notturno newyorkese. Siamo nel 1976, l'America è ancora sconvolta dalla guerra in Vietnam e stanno crollando i falsi valori che ne hanno caratterizzato la società fino alla prima metà degli anni 60. Scorsese fotografa questa crisi con una lucidità che ancora oggi lascia affascinati per quanto attuali possano essere alcune tematiche analizzate: la facilità a reperire armi, i latenti problemi di convivenza tra razze diverse tipici soprattutto dei bassifondi, la falsa retorica della classe politica ed in primis la solitudine e le nevrosi tipiche delle grandi metropoli, la depressione come malattia sociale assolutamente legata ad un territorio drogato e snaturato.
Il tocco inconfondibile del regista è visibile già dalle prime inquadrature: i primissimi piani, l'uso angolato ed estremo dei grandangoli, le riprese che dal particolare salgono fino a farti librare nel cielo, come a voler osservare un mondo estraniante e che non ti appartiene. La colonna sonora dell'ottimo Bernard Herrmann, angosciante ed ossessiva, amplifica e sottolinea lo stato di continua allucinazione mentale del protagonista, mentre la sceneggiatura di Paul Schrader, intrisa di frasi e di momenti che hanno ormai scritto la storia del cinema, può forse in alcuni frangenti apparire troppo slegata rispetto alla tensione che pervade tutto il film.
Il finale è un'ulteriore perla: caratterizzato da quella che sembra una chiusura classica, termina però lasciandoci con l'amaro in bocca, indecisi su cosa fare e su cosa pensare, sconvolti da quello sguardo che fissa lo specchietto retrovisore senza osservare nulla e da quella scintilla di pazzia che ancora luccica negli occhi di Travis.