Recensione Sognando Beckham (2002)

Inaspettato campione di incassi in Gran Bretagna, questo piccolo film diretto dalla regista anglo-indiana Gurinder Chadha mette in scena, sullo sfondo di una competizione sportiva, temi interessanti e di un certo spessore.

Un calcio alle discriminazioni

Inaspettato campione di incassi in Gran Bretagna, questo piccolo film diretto dalla regista anglo-indiana Gurinder Chadha è una divertente commedia adolescenziale, che usa lo sfondo di una competizione sportiva per mettere in scena, con la dovuta leggerezza, temi interessanti e di un certo spessore, secondo una formula già sperimentata due anni fa nel fortunato Billy Elliot di Stephen Daldry. La storia ci mostra dei personaggi circondati da un senso di inadeguatezza latente, ripresi in un periodo delicato della loro vita, ognuno con le sue lotte più o meno aperte: la protagonista Jess deve scontrarsi con l'arretratezza delle sue tradizioni familiari, che vorrebbero per lei, come per sua sorella, un matrimonio combinato, e che escludono categoricamente un futuro come quello da lei sognato (visto come una passione momentanea); la sua amica Jules ha dei genitori apprensivi che non riescono a comprendere la portata della sua passione per il calcio (mentre la madre è terrorizzata da una sua ipotetica omosessualità latente, il padre non trova di meglio che assecondare la sua passione perché spaventato dalla possibilità opposta, ovvero dal contatto di sua figlia con l'altro sesso); Joe, il giovane allenatore, ha rotto da anni con il padre, che è stato la causa dell'infortunio al ginocchio che gli ha stroncato la carriera di calciatore; Tony, amico di Jess e anch'egli di origini indiane, è gay ed è costretto a tenersi dentro questo peso, che, se rivelato, rappresenterebbe un'insostenibile vergogna per le rigide tradizioni di famiglia.
La sceneggiatura mostra l'incontro-scontro di due culture, quindi, e gli elementi di arretratezza e razzismo più o meno latente di entrambe: mentre per quella di Jess è inconcepibile l'unione della ragazza con un occidentale, e ancora di più la sua "contaminazione" con un mondo alieno come quello del pallone, l'ambiente esterno mostra verso la ragazza un'apertura più di facciata che sostanziale, con i sorrisi e le battute dei suoi coetanei (maschi) per la sua ostinazione nel voler perseguire il sogno di giocare a calcio, gli insulti razzisti di un'avversaria durante una partita, e il ricordo, sempre presente, dell'ostruzionismo praticato a suo tempo ai danni di suo padre, giocatore di cricket che, una volta giunto in Inghilterra, dovette rinunciare alla sua passione a causa delle discriminazioni di chi gli stava intorno. Il romanzo di formazione della protagonista si dipana così tra questi due fuochi, con un campo di pallone a fare da sfondo e amori, amicizie, tradimenti e desideri di ribellione tutti ben presenti, come da copione per questo tipo di storie. La competizione sportiva è vista come momento positivo, di sfogo e insieme di gioia, teatro ideale per la riaffermazione di valori quali l'amicizia e lo spirito di squadra; il tono della narrazione è volutamente leggero, "frizzante" come si conviene, ma non per questo viene negato il coinvolgimento emotivo, abilmente gestito nei momenti "topici" della sceneggiatura. Il generico e scontato messaggio finale, ovvero l'invito a lottare per la realizzazione dei propri sogni nonostante le difficoltà, sottende a quello, più problematico, di una necessità di avvicinamento tra culture diverse e in apparente contrasto tra loro, e di un superamento (reale, e non solo teorico) di tutte le discriminazioni, culturali, razziali e sessuali. Il lieto fine lascia aperto questo discorso, evitando di far scivolare il tutto nella melassa e non dimenticando le radici concrete, reali, della vicenda raccontata: la storia d'amore tra Jess e Joe, infatti, resta irrisolta e dal futuro incerto, e l'opposizione dei genitori della ragazza non viene superata; l'omosessualità di Pinky non viene mai dichiarata, e il fardello portato dal ragazzo resta tale fino alla fine del film. C'è ancora molta strada da fare, sembra dirci la regista, e gli ostacoli da rimuovere sono ancora molti, anche se la direzione intrapresa è quella giusta. Una menzione va all'interpretazione delle due protagoniste, simpatiche e mai sopra le righe, e al più navigato Jonathan Rhys-Meyers (che abbiamo già potuto vedere in Velvet Goldmine e Titus) nel ruolo di Joe, tra dolcezza e rabbia inespressa.
Una pellicola riuscita e divertente, insomma, che fa piacere trovare nel solito, non certo esaltante panorama delle uscite natalizie: con un occhio particolare per la regista, in grado di affrontare temi seri e non banali senza far mai mancare il coinvolgimento e la leggerezza tipici di un'opera pensata principalmente per il grande pubblico.

Movieplayer.it

3.0/5