La cosa più importante per cui lottare è non sembrare mai un'attrice. È sufficiente sembrare sempre una persona.
Semmai ci sia stata un'attrice in grado di incarnare il fascino del surreale e del perturbante, dotata di un carisma ipnotico che sfugge a ogni definizione, questa è senz'altro Tilda Swinton. Nei tratti spigolosi di un viso che non potrebbe apparire più diafano, nella profondità enigmatica di quegli occhi color verde smeraldo è racchiuso il mistero di una delle icone del cinema contemporaneo: una star anomala che sullo schermo ha dato vita a fragilità e ossessioni di donne straordinarie nella loro ordinarietà, ma anche a un'ampia galleria di ruoli bizzarri o minacciosi, oscuri o irresistibili. E che da un film all'altro ha donato le proprie sembianze da aliena a streghe e vampiri, così come a personaggi umanissimi e talvolta indimenticabili.
Un'icona tra cinema e arte
Quasi trentacinque anni di carriera alle spalle, e un sessantesimo compleanno in arrivo il 5 novembre, che l'attrice britannica ha celebrato con uno dei riconoscimenti più prestigiosi mai ricevuti: il Leone d'Oro alla carriera che le è stato assegnato alla settantasettesima edizione della Mostra di Venezia, un festival a cui Tilda Swinton ha legato spesso il proprio percorso professionale. Un percorso tanto ricco quanto eterogeneo, contraddistinto dalle frequenti collaborazioni con i suoi registi di fiducia (da Derek Jarman a Luca Guadagnino, da Jim Jarmusch a Wes Anderson), da incursioni nel cinema mainstream (il mentore Antico di Doctor Strange nell'universo Marvel), ma soprattutto da film originali e coraggiosi che le hanno permesso di esprimere le infinite sfumature di un talento con pochi eguali.
Un talento votato al cinema, ovviamente, ma prestato pure all'arte contemporanea (le sue performance nei principali musei del mondo), alla pubblicità, alla moda e alla musica: la Swinton è stata considerata non a caso una potenziale alter ego di David Bowie, di cui ha più volte assunto i look e che ha affiancato nel 2013 nel memorabile video diretto da Flora Sigismondi di The Stars (Are Out Tonight), in cui lei e Bowie si lanciano in un ironico gioco di specchi e di doppelgänger. Attrice magnifica, insomma, ma consapevole del proprio statuto di icona, e sempre pronta a farne uso per le cause a lei più care: un esempio su tutti, la foto scattata nel 2013 di fronte al Cremlino in cui esibisce con fierezza una bandiera arcobaleno, in segno di vicinanza alla comunità LGBT e di dissenso rispetto alle leggi discriminatorie verso gli omosessuali promulgate dalla Russia di Putin.
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Una nobildonna mancata alla corte di Derek Jarman
Nata a Londra il 5 novembre 1960, con sangue australiano da parte di madre e discendente, per il ramo paterno, da un antichissimo clan della nobiltà scozzese, Tilda Swinton unisce l'altolocato background familiare (suo padre è un generale dell'esercito britannico, e a scuola Tilda ha come compagna di classe la futura Lady Diana) a una naturale refrattarietà nei confronti di quel mondo di privilegi che avverte ingiusto e distante: una refrattarietà che contribuirà alla sua aderenza al socialismo e, in seguito, alle sue dichiarazioni anti-élite, incluse delle frecciate al vetriolo all'indirizzo dell'istituzione monarchica. Curiosa e anticonformista, dopo l'università si unisce alla Royal Shakespeare Company e, poco tempo dopo, avrà un incontro fondamentale: quello con il regista Derek Jarman.
Fra i cineasti più arditi della scena britannica degli anni Settanta e Ottanta, nel 1986 Jarman dirige la venticinquenne Tilda nel suo film di debutto, Caravaggio, inaugurando un sodalizio composto da sette pellicole e due cortometraggi, sempre nel segno di un vivacissimo sperimentalismo: da The Last of England (1987) a Edoardo II (1991), rivisitazione postmoderna e in chiave omoerotica della tragedia di Christopher Marlowe, che fa guadagnare alla Swinton la Coppa Volpi a Venezia per il suo algido ritratto di Isabella di Francia, moglie del sovrano inglese. A consacrarla come un astro nascente del cinema arthouse europeo sarà, nel 1993, la connazionale Sally Potter con Orlando, trasposizione del romanzo di Virginia Woolf: un ruolo perfetto per questa giovane diva dalla bellezza androgina, capace di portare alla luce la complessità sentimentale e sessuale del personaggio della Woolf.
Da The Beach a Michael Clayton, i ruoli hollywoodiani di un'attrice da Oscar
Non c'è da stupirsi se per anni, in America, non abbiano saputo che farsene di questa attrice indefinibile, che non rientrava in alcuno degli stereotipi hollywoodiani (nel 2000, Danny Boyle proverà ad adoperarla come villainess accanto a Leonardo DiCaprio in The Beach). E infatti, anche al di là dell'Atlantico le occasioni migliori arrivano dal cinema indipendente: I segreti del lago del 2001, thriller psicologico che la vede nei panni di una madre di famiglia impegnata a proteggere il figlio adolescente da un'accusa di omicidio, e un paio di ruoli secondari ne Il ladro di orchidee di Spike Jonze (2002) e Broken Flowers di Jim Jarmusch (2005). È solo in questo periodo che la sua notorietà si estende pure al grande pubblico: nel 2005 è la malefica Strega Bianca de Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l'armadio e il demoniaco angelo Gabriele che tormenta Keanu Reeves in Constantine.
Una nuova predisposizione per le parti da "cattiva" che, nel 2007, permette alla Swinton di sfoderare una performance raggelante, per quanto sapientemente controllata e sotto le righe, nel thriller Michael Clayton di Tony Gilory: la sua Karen Crowder, spregiudicata consulente legale del conglomerato contro cui si batte il protagonista George Clooney, la porterà ad aggiudicarsi il BAFTA Award e il premio Oscar come miglior attrice supporter. Saranno invece i fratelli Coen a mettere a frutto per la prima volta le sue doti da attrice brillante nella black comedy Burn After Reading - A prova di spia (2008) e ancor di più in Ave, Cesare! (2016), nel duplice ruolo di una coppia di velenose gemelle croniste di gossip.
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Il lato oscuro di Tilda, fra streghe, vampiri e donne al limite
Ma è nell'ultimo decennio, o perlomeno dal suo intenso ritratto al centro del melodramma viscontiano Io sono l'amore di Luca Guadagnino (2009), che Tilda Swinton ha collezionato la maggior parte dei tasselli migliori della propria carriera, in barba all'ageismo che è il più temibile rivale delle attrici ultracinquantenni. In primo luogo, in virtù di una versatilità che le permette di fare praticamente di tutto: da Eva Khatchadourian (la sua prova più estrema e struggente), alle prese con le tenebre di una maternità 'mostruosa' in ...E ora parliamo di Kevin, l'inquietante capolavoro di Lynne Ramsay del 2011, alle comprimarie eccentriche e 'fumettistiche' delle commedie di Wes Anderson (fra cui la vegliarda Madame D. di Grand Budapest Hotel) o dei film sci-fi di Bong Joon-ho (la tirannica Mason di Snowpiercer).
E poi ancora, negli ultimi anni, la decadente vampiressa dalla chioma bianca che si accompagna a Tom Hiddleston in Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch (2013) e, di nuovo per Guadagnino, la rockstar privata della parola del thriller erotico A Bigger Splash (2015) e la sinistra Madame Blanc dell'horror Suspiria (2018): figure in cui si intrecciano una sensualità più accesa o più languida, e in cui intenzioni e principi morali assumono contorni via via più sfumati e impalpabili. Perché Tilda Swinton, e in questo risiede parte del suo ineffabile magnetismo, non svela mai del tutto la natura dei propri personaggi: al contrario, costringe noi spettatori a fronteggiarne le ambiguità, ad immergerci nelle loro zone d'ombra e ad abbracciarne il mistero, pur sapendo che non riusciremo mai a comprenderli fino in fondo. Come la grande arte, del resto, che anziché fornire facili risposte preferisce porre altre domande.
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