Purtroppo la vita non è simmetrica. Eppure basta che Wes Anderson entri in una stanza per rendere tutto più ordinato. Abito impeccabile color sabbia, calzino rosso in bella mostra e scarpe quasi anni Cinquanta. Il tutto condito dal suo immancabile sorriso sornione e dalla solita compostezza di gesti. Anderson parla con lo stesso rigore del suo cinema sempre più geometrico e studiato al millimetro. Lo abbiamo incontrato a Milano in una conferenza stampa ristretta, sicuramente meno folta dei cast affollati con cui ci sta viziando da anni. A proposito di tempo, Grand Budapest Hotel ha chiuso i battenti ormai 7 anni fa, L'Isola dei Cani è datata 2018, ed è facile capire perché The French Dispatch sia un film tanto atteso. Atteso e agognato, visto che era previsto per quella fantomatica edizione di Cannes 2020 che non è mai esistita. Così siamo entrati nella sua redazione immaginaria con un anno di ritardo, e va detto che tra macchine da scrivere e rotative non c'era traccia di polvere. The French Dispatch (di cui vi abbiamo parlato nel dettaglio nella nostra recensione) è un film vivo, esagitato, dal ritmo incessante e travolgente. Però lo ammettiamo. Non è un film che abbiamo amato, perché si avvicina troppo a quell'odiosa definizione davvero difficile non scomodare: "esercizio di stile".
Troppo innamorato dei suoi teatrini simmetrici, Anderson sembra davvero un burattinaio che sfrutta il cast come un album di figurine da appiccicare qua e là senza che qualcuno riesca davvero a lasciare la propria firma. E in un film che celebra l'arte del racconto e della scrittura non è proprio il massimo. Nonostante questo, siamo certi che chi ama Anderson si farà conquistate da The French Dispatch. Perché al di là del suo ritmo frenetico e dei suoi troppi giri a vuoto, rimane una bottega di idee visive e di suggestioni formali di pregevole fattura. Ne abbiamo parlato nel dettaglio con chi ha mosso le sue marionette con la solita passione. O forse dovremmo dire "ossessione".
Niente lettere d'amore
Francia del secondo Dopoguerra. Siamo tra le viuzze di Ennui-Sur-Blasè, cittadina immaginaria in cui ha sede la redazione del French Dispatch, supplemento del quotidiano statunitense Evening Sun. Eccoci subito catapultati dietro le quinte di un numero importante del giornale: un'edizione commemorativa in cui celebrare il direttore della testata con i migliori articoli pubblicati dal French Dispatch. È a loro che Anderson dà forma e voce. Diviso in vari capitoli a sé stanti, The French Dispatch è stato molto travisato dalla stampa, che in modo forse narcisista ha subito bollato il film come "una lettera d'amore al giornalismo". No, non è così. E Wes Anderson lo ribadisce senza problemi: "Questo film nasce dal mio vecchio amore per il New Yorker, che leggevo tantissimo da ragazzino. Era una realtà editoriale talmente affascinante che ho iniziato a studiare il suo dietro le quinte. Mi sono chiesto chi ci lavorasse e chi animasse una rivista talmente curata. La prima cosa che mi ha attirato sono stati quei racconti brevi che aprivano il New Yorker. Si trattava però di narrativa pura, non di giornalismo vero e proprio. Allo stesso modo The French Dispatch sfrutta il contesto del giornalismo per andare oltre il giornalismo e soffermarsi su storie immaginarie. In questo film non c'è cronaca, non c'è realtà. Solo immaginazione e finzione. Per cui no. Non consideratela una lettera d'amore al giornalismo. Voi l'avete percepito così, ma io non l'ho mai definito tale. Perché non lo è. Sicuramente nutro un grande rispetto per quel mestiere e per la tradizione dei quotidiani che leggo ancora ogni giorno, ma ho evitato il più possibile di aderire a dei modelli esistenti. Certo, cerco ispirazione, ma evito sempre di rendere gli omaggi lampanti e palesi. In questo modo trovo la mia strada ed evito anche accuse di plagio (ride), ma ammetto che una delle fonti di ispirazione più consapevole per The French Dispatch è stato L'oro di Napoli di Vittorio De Sica. Tornando al giornalismo, nel film ho cercato di dare vita a quel senso di appartenenza presente nelle vecchie redazioni, parlando di persone che si assicurano che ogni pubblicazione abbia qualcosa da dire. Senza dimenticare uno spessore significativo soprattutto a livello sociale".
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Francia immaginaria (ma non troppo)
A confermare il potere dell'immaginazione sulla realtà ci pensa anche l'ambientazione del film. Come detto il paese di Ennui-Sur-Blasè non esiste ed è stato ricreato nella splendida Angoulême, suggestiva cittadina a Nord della Francia nota per il suo storico festival del fumetto. Un posto impregnato di arte, grafica e colori. Un posto che ha subito fatto innamorare Wes Anderson che a proposito della location ha detto: "Una delle prime idee legate al film era di renderlo il più francese possibile. Volevo girare un film francese, con un cast francese. Per cui il passo successivo è stato cercare il luogo giusto. Io e il mio scenografo ci siamo messi a girare per la Francia alla ricerca di una location che non fosse troppo grande e troppo caotica. Ci serviva un posto tranquillo non solo dove girare il film, ma dove poter vivere per calarci nell'atmosfera e concentrarci al meglio. Insomma, non volevamo tra i piedi i ritmi frenetici del mondo industrializzato. Così abbiamo trovato Angoulême: un posto ideale che ci ha consentito di lavorare come una volta, con serenità e senza fretta. Siamo stati ispirati dai suoi splendidi scorci cittadini, poi integrati con dei set ricreati da zero. Abbiamo anche coinvolto mille abitanti del posto, che hanno lavorato come comparse. Pensate: quando abbiamo proiettato il film ad Angouleme, abbiamo riempito ben due sale soltanto di persone che hanno lavorato a The French Dispatch".
Dal colore al bianco e nero
L'estetica di Wes Anderson rimanda subito a dei colori ben precisi. Tinte pastello, palette cromatica tenue che non spicca quasi mai con tonalità troppo sgargianti. In The French Dispatch, invece, c'è un massiccio utilizzo del bianco e nero. Una scelta stilistica coerente con la volontà di ricreare la carta stampata (composta appunto da lettere nere su uno sfondo bianco) sul grande schermo. Su questa piccola rivoluzione Anderson ha ammesso: "Per me il bianco e nero è stato un ritorno alle origini, visto che il mio primo cortometraggio era girato così. Molti pensano che il bianco e nero semplifichi l'immagine, ma per me non è così. A me piace cambiare le scelte cromatiche e variare anche i formati. Però nel film c'è una scena che doveva essere in bianco e nero. È quella girata nel carcere con Benicio Del Toro e Lea Seydoux. Sul set in quel momento mi è tornato in mente l'attore Michel Simon. Ho pensato che non conoscevo il suo viso a colori. L'avevo visto sempre e solo in bianco e nero. Quindi automaticamente quella scena andava girata così. Sicuramente la cosa mi ha fatto riflettere tanto sull'uso della luce. Per esempio un oggetto sullo sfondo non risalta tanto in bianco e nero, per cui bisogna intervenire perché quell'oggetto risulti più evidente e nitido. Questa sperimentazione tecnica è stata una gioia per me, il mio scenografo e il mio direttore della fotografia. Insomma, ogni storia ha le sue esigenze e ogni volta scelto un pennello diverso".