Chi era quello che diceva sempre 'Mostrami un omosessuale felice e io ti mostrerò il cadavere di un gay'?
"You're singing for yourself and the boys in the band", era la frase rivolta da James Mason a Judy Garland in È nata una stella, da cui Mart Crowley prese il titolo per il suo dramma teatrale, andato in scena per la prima volta off-Broadway nell'aprile del 1968. Un anno più tardi, molte cose sarebbero cambiate: Judy Garland muore all'improvviso e allo Stonewall Ill, un locale del Greenwich Village, esplode una rivolta destinata a dar vita all'intero movimento della gay liberation. Si tratta di una premessa necessaria alla nostra recensione di The Boys in the Band, seconda trasposizione filmica della pièce di Crowley: un'opera, quest'ultima, profondamente legata al proprio contesto storico e culturale di appartenenza, di cui ci fornisce una memorabile istantanea.
Un'altra festa per il compleanno del caro amico Harold
Il successo di The Boys in the Band, sulla scia del modello di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, nel 1970 si sarebbe esteso anche al cinema, quando Mart Crowley firmò l'adattamento omonimo affidato alla regia di William Friedkin. Il film, distribuito in Italia con il titolo Festa per il compleanno del caro amico Harold, avrebbe segnato un punto di svolta nella rappresentazione dell'omosessualità sul grande schermo: per la prima volta, al centro di un'importante produzione hollywoodiana c'erano personaggi esplicitamente gay, impegnati a raccontare se stessi, le proprie esperienze e le quotidiane difficoltà nel sentirsi accettati fino in fondo. In sostanza, Festa per il compleanno del caro amico Harold dipingeva una realtà sulla quale, fino a quel momento, il cinema americano non aveva mai rivolto una vera attenzione, se non in casi sporadici e facendo leva su sottintesi e allusioni (si veda l'esempio di Quelle due di William Wyler, del 1961).
A cinquant'anni di distanza dal cult movie di William Friedkin, è l'attore e regista teatrale Joe Mantello a riportare The Boys in the Band all'attenzione del pubblico, dopo averne diretto un revival a Broadway nel 2018 (per il cinquantennale del dramma di Crowley), conservando il medesimo cast dello spettacolo teatrale. Una versione prodotta per Netflix insieme a Ryan Murphy, su una sceneggiatura firmata da Ned Martel (uno degli autori di Glee e American Horror Story) proprio con Mart Crowley, scomparso il 7 marzo 2020, e scrupolosamente fedele al testo di partenza. Non cambia neppure l'ambientazione: la New York del 1968, un microcosmo in cui gli spazi riservati alla comunità omosessuale non sono ancora sufficienti, tuttavia, a consentire un pieno senso di serenità e di realizzazione rispetto al proprio orientamento.
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Jim Parsons e "i ragazzi della banda"
Il tema al cuore di The Boys in the Band, ieri come oggi, è appunto questo: l'angoscia dell'inadeguatezza, della diversità e della solitudine, accresciuta da un'omofobia interiorizzata che emerge a più riprese per tormentare i vari co-protagonisti. L'appartamento nell'Upper East Side di Michael, un uomo di mezza età interpretato da Jim Parsons, diventa così il teatro del progressivo gioco al massacro che si consuma nel corso del party organizzato per il compleanno di Harold, dandy sarcastico e imperturbabile a cui presta il volto Zachary Quinto, il quale ricalca il ritratto offerto nell'originale da Leonard Frey. Alla festa partecipano altri cinque amici di Harold, tutti omosessuali, e un giovane escort con un look da cowboy (Charlie Carver) ingaggiato in qualità di 'regalo'; ma quella stessa sera, a casa di Michael bussa anche Alan (Brian Hutchison), un suo ex compagno di college di passaggio a New York.
La presenza di Alan, un "corpo estraneo" palesemente a disagio in questa cerchia di amici, sarà il detonatore in grado di far esplodere una serie di tensioni latenti e di innescare un feroce risentimento nel padrone di casa; per tutta risposta, in un impulso di sadismo psicologico, Michael darà inizio a un crudele gioco telefonico durante il quale i suoi invitati metteranno a nudo le rispettive fragilità, in un doloroso corto circuito fra presente e passato. Si tratta di un elemento di suspense che mezzo secolo fa doveva aver affascinato un William Friedkin ai suoi primi passi, e che rende il remake di Joe Mantello altrettanto incalzante, per quanto forse meno cupo e claustrofobico se confrontato con la pellicola del 1970.
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L'omosessualità prima di Stonewall
Del film di Fredkin, in compenso, The Boys in the Band recupera le due canzoni portanti, il duetto di Marvin Gaye e Tammi Terrell Good Lovin' Ain't Easy to Come By e l'incisione di Martha and the Vandellas di (Love Is Like a) Heat Wave, a cui si aggiungono This Guy's in Love with You di Herp Albert e pezzi jazz di Miles Davis, Chet Baker ed Herbie Hancock, a rievocare ulteriormente l'atmosfera di fine anni Sessanta. Perché, come sottolineato in apertura, è quasi impossibile separare The Boys in the Band dal contesto in cui è nato: per quanto sia innegabile che numerosi aspetti dell'opera di Crowley possano risultare ancora validi, questa galleria di comprimari intenti a scagliarsi l'uno contro l'altro, se non addirittura ad autosabotarsi, rispecchia lo spirito di un'altra epoca, con la sua relativa consapevolezza di un'omosessualità spesso rinnegata o vissuta con vergogna.
Alla provocatoria vivacità di Emory (Robin de Jesús) fanno infatti da contraltare l'ostinata negazione di Alan e, in maniera perfino più emblematica, l'atteggiamento ambivalente di Michael: un amalgama di pulsioni contrastanti ed inconciliabili, espresse con efficacia mediante l'istrionismo di Jim Parsons (rimane fuori fuoco, al contrario, il personaggio di Donald, pure a causa del miscasting di Matt Bomer). "Se riuscissimo a imparare a non odiare noi stessi in modo così implacabile", commenta con amarezza Michael al termine di una serata al vetriolo, prima di incamminarsi fra le ombre di New York sulla melodia di Alone Together e la malinconica tromba di Chet Baker.
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Conclusioni
Concludendo la recensione di The Boys in the Band, pertanto, è lecito porsi la domanda risollevata a più riprese dall’uscita del film di Joe Mantello: qual è il senso di rivisitare una pièce che, dopo cinquant’anni, rischia di apparire irrimediabilmente datata? In quest’ottica, The Boys in the Band potrebbe funzionare più che altro come ideale “capsula del tempo”: sia per la sua prospettiva sull’esperienza omosessuale, sia per i tipici toni da dramma americano di metà Novecento. Eppure, anche in virtù di un cast all’altezza di quello del 1970 e di una messa in scena che evita le trappole del “teatro filmato”, il testo di Mart Crowley si dimostra ancora in grado di sprigionare una sincerità e un’urgenza che arrivano dritte al pubblico; e la sua empatia per questo campionario umano basta appena a mitigare la durezza di un ritratto che, tutto sommato, ci parla pure – almeno un po’ – del nostro presente.
Perché ci piace
- L’intensità e la tensione della pièce di Mart Crowley, riprodotta fedelmente e con il giusto ritmo dal regista Joe Mantello.
- Un cast complessivamente valido, in cui si distingue il mattatore Jim Parsons nel ruolo di maggior spicco.
- Numerose sequenze che, soprattutto nella seconda parte, riescono a riprodurre la stessa forza emotiva della trasposizione originale di William Fredkin.
Cosa non va
- La natura per certi versi datata dell’opera stessa e l’inserto di alcune brevissime scene di flashback, ridondanti ai fini della narrazione.