Esistono serie la cui importanza è legata innanzitutto al loro impatto sull'immaginario collettivo, al punto da aver creato autentici fenomeni di massa; esistono serie che hanno rappresentato dei fondamentali momenti di svolta nell'evoluzione della TV; ed esistono serie che hanno fatto il loro ingresso nel canone a passi più lenti e silenziosi, ma che si attestano fra quanto di più bello sia mai stato realizzato per il piccolo schermo. A quest'ultima categoria appartengono ad esempio The Wire di David Simon e, per quanto riguarda il decennio appena trascorso, The Americans, creato da Joe Weisberg per la FX, trasmesso negli USA fra il 2013 e il 2018 e dal 1° settembre interamente disponibile nel catalogo di Amazon Prime Video.
Sei stagioni, settantacinque episodi e la garanzia che, con The Americans, avrete l'occasione di immergervi non solo in uno dei più affascinanti racconti seriali della nostra epoca, ma in uno dei capolavori della TV di ogni tempo. Perché il posto di The Americans è accanto a I Soprano, The West Wing, Mad Men e Breaking Bad, cioè quelle pietre miliari che chiunque ami (e studi) la narrazione seriale televisiva dovrebbe conoscere. E sebbene il successo della serie di Joe Weisberg non sia stato immediato quanto quello degli altri titoli citati, la sua consacrazione è stata scandita dagli elogi crescenti della critica e da un ampio numero di premi: quattro Emmy Award, quattro Critics' Choice Award, due Writers Guild Award e per la sua ultima, meravigliosa stagione, il Golden Globe e il Producers Guild Award come miglior serie del 2018.
I Jennings: ritratto di una famiglia americana
L'inclusione nel catalogo di Amazon potrebbe consentire dunque a nuovi spettatori di scoprire cosa abbia reso così speciale un prodotto che, a prima vista, potrebbe essere scambiato per l'ennesimo spy thriller a sfondo storico. Certo, The Americans adotta la veste dell'opera di genere, ma senza adagiarsi sulle convenzioni e i cliché del filone d'appartenenza: si tratta di una serie TV in cui la suspense e i colpi di scena convivono con una tensione più intima, di matrice psicologica, e soprattutto con l'esplorazione delle dinamiche che regolano la quotidianità e i rapporti di una comune famiglia americana. Gli "americani" del titolo, ironicamente antifrastico, sono infatti i Jennings, che vivono in un elegante quartiere residenziale di Falls Church, una cittadina dell'area suburbana di Washington D.C.
Philip ed Elizabeth Jennings, interpretati da Matthew Rhys e Keri Russell, gestiscono un'agenzia di viaggi e hanno due figli adolescenti, Paige (Holly Taylor) ed Henry (Keidrich Sellati). L'anno è il 1981, il repubblicano Ronald Reagan si è appena insediato alla Casa Bianca e i Jennings costituiscono l'incarnazione della famiglia americana modello, quella che campeggia sui manifesti pubblicitari o che sorride dallo schermo durante gli spot televisivi. Se non fosse che Philip ed Elizabeth in realtà si chiamano Mischa e Nadezhda, sono nati in Unione Sovietica e, pur avendo passato negli Stati Uniti metà della propria esistenza, sono due spie al servizio del KGB e sottoposti alle direttive del loro supervisore, Claudia (una sopraffina Margo Martindale).
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L'insostenibile leggerezza dell'essere spie
Joe Weisberg, creatore e showrunner della serie, prima di dedicarsi alla televisione era stato un insegnante in un liceo del Queens, aveva scritto due romanzi, ma soprattutto aveva prestato servizio per la CIA: un'esperienza di cui Weisberg aveva fatto tesoro e che avrebbe riversato nel realismo con cui The Americans ci illustra gli ambienti del controspionaggio e la metodicità del lavoro dell'agente dell'FBI Stan Beeman (Noah Emmerich), il nuovo vicino di casa dei Jennings, destinato a diventare il miglior amico di Philip. Perché Philip ed Elizabeth, che si macchiano di azioni terribili in nome della ragion di stato e, all'occorrenza, non esitano a mentire e a versare sangue, appaiono - e ci appaiono - come due persone magnifiche: affabili ma mai invasive, discrete ma con simpatia e carisma da vendere, nonché genitori amorevoli di due ragazzi adorabili.
I Jennings, in altre parole, sono l'American Dream: un'immagine paradigmatica di quello stile di vita contro cui si scaglia la propaganda filosovietica. E Stan, che al contrario vede il proprio matrimonio andare in pezzi, si affeziona inesorabilmente a loro, così come non possiamo che affezionarci noi spettatori; che tuttavia, a differenza dell'agente dell'FBI, siamo a conoscenza fin dall'inizio della doppia vita di Philip ed Elizabeth, dei dilemmi morali sempre più laceranti a cui devono far fronte quasi ogni giorno e del peso, a tratti insostenibile, nel mantenere un equilibrio precario, nonostante gli spettri che si agitano dietro le loro maschere di felicità. The Americans è una serie di spionaggio, ma ancor di più un'analisi della (im)possibilità di conciliare i diversi aspetti della nostra natura, di far combaciare il senso del dovere e i dettami della coscienza.
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Una serie che è già un classico
Pertanto la cornice degli anni Ottanta, corredata da avvenimenti, look e canzoni (la colonna sonora è una sorta di straordinario juke-box), contribuisce alla riflessione storica e culturale in merito all'ultimo decennio della Guerra Fredda, ma senza mai risultare un limite all'universalità del racconto. Se Breaking Bad ci descriveva la trasformazione di un uomo comune in un signore del crimine, The Americans è basato su una coppia di protagonisti che commettono atti mostruosi, ma in fondo non vorrebbero essere altro che due persone comuni; e per questo è, in primo luogo, una serie sulla sofferenza. Una sofferenza diluita giorno dopo giorno, anno dopo anno, negli sguardi sospettosi e nei volti angosciati di Matthew Rhys e Keri Russell: due attori stupefacenti, capaci di lavorare in sottrazione per far emergere tutte le sfumature e le contraddizioni dei propri personaggi.
Contraddizioni nelle quali resteranno coinvolti di volta in volta numerosi individui, a partire dai figli dei Jennings (Paige, in particolare, attraverserà un percorso sorprendente), e che verranno inevitabilmente a galla nella sesta e ultima stagione: una sequenza di episodi a dir poco perfetta che culmina in un finale, START, da annoverare fra le più struggenti ore di televisione - o, in generale, di narrativa per lo schermo - in cui si possa avere la fortuna di imbattersi. L'apice, e al tempo stesso l'epilogo, di una serie imperdibile, che non somiglia a nient'altro ma la cui fosca e dolorosa bellezza ha già l'aura del classico.