Fine anni Venti, durante l'occupazione della Corea da parte del Giappone. Lee Jung-chool, poliziotto coreano al soldo dei giapponesi, riceve l'incarico di identificare e neutralizzare un gruppo armato che lotta per la libertà del paese e inizia così a dare la caccia al loro leader, Kim Woo-jin. La missione però si trasforma presto in un pericoloso doppio gioco, poiché vi sono traditori da entrambe le parti della barricata.
Carriera poliedrica
È decisamente eccentrico il percorso artistico del regista sudcoreano Kim Ji-woon, che dopo l'esordio con The Quiet Family nel 1998 si è sempre mosso all'interno di determinati generi ma con toni ed ambizioni che variano da un titolo all'altro. La sua opera prima, per esempio, è una commedia horror, mentre film come Two sisters e I Saw the Devil esplorano territori da brivido con maggiore serietà. Dopo un film elegante e brutale come Bittersweet Life, ha realizzato il folle omaggio allo spaghetti western Il buono il matto il cattivo, e nel 2013 si è concesso una trasferta americana con The Last Stand - L'ultima sfida, dove ha diretto Arnold Schwarzenegger. Per il suo ritorno in patria, dopo il cortometraggio The X, il cineasta ha scelto un progetto a dir poco epocale: un autentico kolossal che è la prima produzione del ramo coreano della Warner Bros.. L'operazione ha già iniziato a produrre risultati notevoli, poiché il giorno stesso della prima mondiale del film alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia è stato annunciato che The Age of Shadows - noto anche come Secret Agent - rappresenterà la Corea del Sud in caso di nomination all'Oscar come miglior film straniero.
Guerra e spionaggio
Appoggiandosi principalmente sul volto sfatto e tormentato del suo attore-feticcio Song Kang-ho, il regista costruisce un intrigo spionistico sull'occupazione giapponese che si contrappone idealmente al più elegante Mademoiselle di Park Chan-Wook, presentato a Cannes e incentrato sul medesimo periodo storico. In entrmabi i film si ricorre allo stesso stratagemma per differenziare le due lingue nei sottotitoli: il coreano è riportato in bianco, mentre il giapponese in giallo. La duplicazione etnica e linguistica riflette molto bene e in modo sottile il tema dominante della duplicità, con l'elemento fondamentale di genere del doppio gioco portato all'estremo. Fino ad un culmine logico e al contempo sorprendente, merito del lavoro di un cineasta che gioca sugli stilemi preesistenti per rielaborarli in modo molto personale ed appetibile.
E se sulla sceneggiatura non c'è nulla da ridire, anche grazie all'impegno di un cast al massimo della forma (anche se va detto che l'intrigo inizialmente fatica un minimo ad ingranare), la componente action non è da meno, in particolare nello splendido inseguimento iniziale e in una lunga, tesissima sequenza su un treno capace di fare invidia al Bong Joon-ho di Snowpiercer. In mano a Kim Ji-woon spettacolo, politica e tragedia si mescolano con risultati efficaci ed imprevedibili, dando vita ad un prodotto compatibile con i gusti del pubblico generalista ma allo stesso tempo profondamente ancorato alla visione che il suo autore ha del cinema: terreno fertile dove semi riconoscibili possono dare frutti parzialmente inattesi, ma non per questo meno saporiti. Viene quindi confermata la grande vitalità del cinema di genere coreano, nella speranza che questo "piccolo" gioiello possa fare breccia nel cuore degli spettatori al di fuori dei confini nazionali e festivalieri.
Movieplayer.it
4.0/5