Non avrebbe potuto scegliere un titolo più emblematico László Nemes per la sua seconda opera da regista, Tramonto (Sunset): il tramonto dell'Impero austro-ungarico, il colosso bifronte dai piedi d'argilla, minato da insanabili divisioni interne, ma in senso più ampio anche il tramonto di una civiltà e di un'idea di Europa che, da lì a breve, sarebbero state spazzate via dalla Prima Guerra Mondiale e dall'avvento del "secolo breve".
Sunset, produzione imponente che ricostruisce la Budapest del 1913, arriva in concorso al Festival di Venezia a tre anni di distanza dal folgorante debutto di Nemes, Il figlio di Saul, cronaca di due giornate all'interno del campo di concentramento di Auschwitz, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2015 e dell'Oscar come miglior film straniero. E dopo l'orrore dell'Olocausto, in Sunset il regista ungherese affronta un'altra pagina della storia del ventesimo secolo, adottando però un approccio ancora più complesso e ambizioso.
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Budapest, 1913: l'odissea di Irisz
Se il titolo di questo nuovo film rimanda inevitabilmente al tema del crepuscolo di un continente in procinto di essere sconvolto e fatto a pezzi dall'esplosione del conflitto del 1914, un riferimento più sottile potrebbe essere diretto ad Aurora, il capolavoro di Friedrich Wilhelm Murnau del 1927, indicato da László Nemes come uno dei propri modelli d'ispirazione. Così come Aurora metteva in scena l'eccitazione, l'euforia e il caos del microcosmo metropolitano attraverso gli occhi di una coppia di contadini, in Sunset il senso di angoscia e di smarrimento trasmesso dalla capitale ungherese è filtrato mediante lo sguardo della protagonista, Irisz Leiter: una giovane donna appena giunta a Budapest con il proposito di farsi assumere presso la rinomata cappelleria che, fino a pochi anni prima, era appartenuta alla sua famiglia, in seguito caduta in disgrazia.
Irisz, interpretata dalla ventinovenne Juli Jakab, costituisce la sola possibilità di focalizzazione dell'intero film: una focalizzazione tutta interna, esattamente come accadeva con il prigioniero Saul Ausländer. E come ne Il figlio di Saul, anche in Sunset Nemes e il suo direttore della fotografia, Mátyás Erdély, utilizzano una camera a mano per seguire costantemente Irisz, con lunghe riprese in semi-soggettiva in cui un lato dell'inquadratura è sempre occupato dal volto o, ancora più spesso, dalla nuca della ragazza. Attorno a lei, le brulicanti strade di Budapest o la penombra dei lussuosi interni contribuiscono, di minuto in minuto, ad accrescere quella sensazione di malessere e di ambigua minaccia: il sospetto che Irisz sia prigioniera di un mondo sconosciuto ed ostile, in cui il dramma è sempre dietro l'angolo e un ricevimento dell'alta nobiltà può trasformarsi in pochi secondi in un autentico "teatro di sangue".
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Un dramma storico avvolto nel mistero
Sunset, difatti, contravviene in pieno ai codici del tradizionale film storico, così come lo stile immersivo di László Nemes è quanto di più lontano si possa immaginare dalla nozione di accademismo. La messa in scena, che segue coordinate molto simili a quelle de Il figlio di Saul, sfodera una potenza innegabile, con i suoi lunghi ed elaboratissimi piani sequenza e la capacità di adoperare il linguaggio registico per innescare una tensione inesorabile. Una tensione per la quale, tuttavia, è arduo individuare una fonte ben determinata: perché Sunset è un film che oscilla senza sosta fra una dimensione di iperrealismo e un impalpabile sottofondo onirico, che interviene ad incrinare le certezze del pubblico in occasione delle numerose "zone d'ombra" di una narrazione spesso oscura ed ermetica.
È la ragione del fascino, ma al contempo anche il limite intrinseco di un'operazione coraggiosa, ma certo di non facile fruizione, dato che Nemes dissemina tutto il film di dubbi e interrogativi per i quali non fornisce risposte definitive. Se da una certa prospettiva Sunset può essere letto senz'altro come un affresco sulla decadenza della classe aristocratica e di un sistema - culturale e politico - giunto ormai sull'orlo del precipizio, il secondo lungometraggio di Nemes si carica di suggestioni ulteriori, mentre il punto di vista di Irisz pare sconfinare a più riprese nell'allucinazione e nella paranoia. Sono gli elementi del mistero di un'opera intrigante quanto indefinibile, che punta a riscrivere un genere, o perlomeno forzarne le regole, e a lanciare una sfida allo spettatore; quanto basta per lasciarci, se non del tutto convinti, comunque decisamente ammaliati.
Movieplayer.it
3.5/5