Struggente malinconia sulle note di un piano jazz
Mai trailer fu più menzognero di quello che da mesi imperversa sul web promuovendo Be kind rewind attraverso le esilaranti immagini di Jack Black che canticchia la sigla di Ghostbusters - Acchiappafantasmi o si accomoda sul sedile posteriore di una limousine in abiti femminili riproponendo il remake di A spasso con Daisy.
Intendiamoci, entrambe scene ben presenti nel film, ma utilizzate come ariete di un battage pubblicitario che punta tutto sulla dimensione comica della pellicola di Michel Gondry, vendendola per qualcosa che, all'atto della visione, delude le aspettative. Quello che stiamo affrontando qui non è un discorso prettamente qualitativo, ma piuttosto costitutivo: Be Kind Rewind è un lavoro proteiforme, complesso e stratificato che dietro il paravento della facile etichetta di genere nasconde un'anima molteplice e sfuggente. La prima possibile chiave di lettura ci viene offerta dallo stesso regista con gli splendidi titoli di testa che, in perfetto old jazz style, introducono fin da subito lo spettatore nel piccolo mondo antico della comunità di Passaic, isola felice a ridosso di New York dove la dimensione comunitaria ha ancora un peso preponderante nella vita dei cittadini. La raffinata eleganza delle immagini e il bianco e nero d'epoca ci iniziano al vero fulcro della pellicola: l'omaggio a un glorioso passato personificato nella figura dell'eroe locale, il pianista jazz afroamericano Fats Waller, omaggio che culminerà nelle struggenti riprese collettive di un film dedicato al mitico jazzista e realizzato artigianalmente dai suoi concittadini.
E proprio questo 'fare insieme' rappresenta l'essenza costitutiva della pellicola di Gondry, il concetto che permea questo lavoro fotogramma dopo fotogramma è la celebrazione dell'atto creativo puro e semplice, genuino, povero, spontaneo, esageratamente rabberciato se vogliamo, ma proprio per questo ancor più poetico. La filosofia che sottende Be Kind Rewind non può non riportare alla mente lo straordinario omaggio tratteggiato da Tim Burton in Ed Wood, lucida e toccante biografia decisamente più riuscita rispetto al film di Gondry perché incredibilmente focalizzata su ciò che per Burton rappresenta l'essenza stessa del cinema: la passione pura per il medium cinematografico, la fiducia incrollabile nei propri mezzi anche quando questi sfiorano il dilettantismo e l'entusiasmo inesauribile che permette di superare qualunque ostacolo. Mentre Ed Wood punta dritto al cuore centrando l'obiettivo senza alcun tentennamento, l'opera di Gondry soffre di un eccessivo intellettualismo. La sua elegia pro cinema artigianale filtra mediata da spesse stratificazioni di pensiero che si riversano nello script ridimensionando notevolmente l'impatto emotivo del lavoro. Che il regista lo ammetta o no, il suo è un cinema in cui la creazione degli universi fantastici che lo popolano viene severamente mediata dall'intelletto e l'eccesso di autocontrollo paralizza il libero fluire delle emozioni.
A complicare ancor di più la situazione interviene la scelta del regista di voler fondere all'interno dello script molteplici elementi raggiungendo una densità contenutistica di difficile e non immediata lettura. La dimensione biografica (o meglio della falsa biografia dal sapore alleniano) si sovrappone a quella autobiografica che aleggia sull'elogio del cinema-bricolage tanto amato da Gondry e già celebrato nel precedente L'arte del sogno. I costanti richiami al mondo del jazz attivano una serie di riferimenti che non tutti gli spettatori sono in grado di cogliere, e la spessa coltre metacinematografica costruita apposta per creare un legame forte col pubblico, chiamato a partecipare al gioco e a riconoscere i popolarissimi titoli che gli vengono riproposti in versione remake, alla lunga svela il proprio meccanismo facendo affievolire progressivamente il riso sulle labbra degli spettatori. Così vediamo un Jack Black dalle illimitate potenzialità comiche smorzare la propria verve e recitare col freno tirato, vediamo scorrere davanti ai nostri occhi gustose parodie delle pellicole cancellate dal campo magnetico di cui Black è portatore sano che strappano qualche risata di gusto, ma quando il gioco si fa scoperto e le buffe trovate artigianali non stupiscono più, a prevalere è il vero mood della pellicola, quella lieve malinconia che lascia sulla pelle un senso di incompiutezza. Incompiutezza per l'elegante addio con cui gli abitanti di Passaic omaggiano il proprio passato senza essere riusciti a difendere il presente dal violento irrompere della modernità, incompiutezza di una pellicola che alterna squarci di raffinata poesia a momenti di incertezza dovuti all'accumulo di concetti e suggestioni.
Movieplayer.it
3.0/5