Recensione Into the Wild (2007)

Sean Penn dirige con buona verve, seppur con qualche affanno, una storia a tratti molto emozionante che però rischia di essere fagocitata dalla seduzione della natura contaminata che mostra.

Storia tragica del Super Vagabondo

Il mondo fuori ci chiama. Come l'essere umano di fronte al vuoto è colto da vertigine e nello stesso tempo da esso è attratto, così il protagonista di Into The Wild, quarta prova da regista di Sean Penn, è sedotto dalla folle idea di dare una svolta alla propria vita consegnandosi all'ignoto. Fresco di laurea e indirizzato su un percorso di sogni e aspirazioni che sembra tracciato più da chi gli sta accanto che dalla sua volontà, Christopher McCandless decide di rinunciare all'assunzione delle responsabilità, al confronto con chi lo ha generato (e non sa comprenderlo) per la conquista dell'amore, e di abbandonare la civiltà per ritrovare un contatto primitivo con la natura, quella del mondo esterno e quella sua più intima. Egli dice addio alla propria identità, a partire dal nome che sceglie di mutare in Alexander Supertramp, per definirsi e riconoscersi già come vagabondo solitario, senza fissa dimora e col sogno dell'Alaska nel cuore. Il ragazzo si spoglia di tutti i suoi averi, affida il suo corpo alle intemperie e alla meraviglia del mondo, lo espone al contatto con luoghi e persone sconosciute, che riverniciano il suo stupore e lo accompagnano nell'esplorazione delle emozioni umane, in questo viaggio negli angoli più nascosti dell'America. La fuga del protagonista dal confronto con i propri genitori rappresenta però una soluzione facile, un po' vigliacca per la verità, alla propria insoddisfazione, che non ci permette di farcelo amare completamente.

Into the wild, tratto dal libro di Jon Krakauer ispirato alla vicenda vera di McCandless, è una storia dal respiro universale che esplora con spirito avventuriero e un po' ruffiano, ma dal fascino garantito, questioni fondamentali che riguardano tutti da vicino e ripercorrendo la storia del Super Vagabondo riflette su una possibilità estrema: spogliarsi delle convenzioni, demolire le sovrastrutture, abbandonare gli agi dell'età moderna che hanno determinato l'allontanamento degli uomini dagli uomini e lo scollamento di questi dal mondo concreto. Inevitabile che in una situazione in cui si frantumano tutti i punti fermi sia poi la fede a prendere il sopravvento, il bisogno di essere baciati nella difficoltà più grande dalla luce dei Cieli. E in questo senso, il finale, visivamente molto potente grazie ad una serie di primi piani sbilenchi sul volto stravolto del protagonista e sulle lacrime aggrappate pericolosamente alle palpebre, con pretese non troppo velate di agire sulla nostra naturale tensione alla commozione di fronte all'estrema sofferenza, è un po' fastidioso, perché avvicinando l'uomo a Dio in una sorta di estasi mistica rappresenta una deriva cattolica decisamente fuori tono in un film dove l'afflato religioso si insinuava soltanto in sottotraccia.

Il protagonista del film non è un animale anti-sociale come lascerebbe pensare un soggetto del genere, perché il Supertramp non teme l'incontro, il rapportarsi all'altro. Egli decide autonomamente di andare verso persone che hanno la libertà di amare e di dare ciò che sentono, giorno per giorno, senza arrogarsi il diritto di pretendere, indipendentemente dai legami di sangue. Ciò che egli teme e quello da cui scappa è la dittatura dell'amore genitoriale, la costrizione delle aspettative, l'insofferenza di una vita agiata già tracciata da padre e madre. Il tema principale del film è tutto qui, nel rapporto conflittuale tra il ragazzo e i suoi genitori. Emile Hirsch aveva interpretato in un due recenti ed interessanti pellicole, Imaginary Heroes e The Mudge Boy (un autentico gioiello purtroppo inedito in Italia, ma che consigliamo di recuperare in qualche modo), il ruolo di un figlio in lotta col proprio padre ed entrambe le storie culminavano nell'emozionante scena di un abbraccio catartico tra padre e figlio, che scioglieva la tensione e il dolore accumulato dal protagonista nel percorso che l'aveva portato al bisogno insopprimibile di essere stretto dalle braccia del proprio genitore. Qui l'abbraccio con la famiglia e la relativa catarsi avvengono solo nell'immaginazione del protagonista agonizzante, dopo aver compreso la saggezza dell'amore ad ogni costo. La giovane carriera di Hirsch ci sembra a questo punto rappresentare una sorta di esplorazione di una questione chiave della nostra epoca, il rapporto tra genitori e figli appunto, e il tentativo di trovare un punto di equilibrio per arrivare ad un confronto sano tra le due parti. Nel film di Penn non c'è scelta, il protagonista evita tale confronto, e prova a ritornare ad uno stato primordiale dove che faccia tabula rasa di quanto è stato.

Sean Penn dirige con buona verve, seppur con qualche affanno, una storia a tratti molto emozionante che però rischia di essere fagocitata dalla seduzione della natura contaminata che mostra; il suo entrare "into the wild" per svelare l'essenza dell'uomo si scontra con la necessità di ritornare alla civiltà per dar vigore all'impianto emotivo del film attraverso storie che mantengano alta la soglia dell'attenzione e dell'interesse dello spettatore più svogliato. Il film soffre di un eccessivo didascalismo che non permette alle immagini di fluire e travolgerci come vorremmo, e che spiega inutilmente ogni virgola di ciò che accade, così come il dosaggio imperfetto di musica e silenzio fallisce nel restituirci l'inquietante fascino della solitudine, dell'esplorazione solitaria dell'ignoto, anche perché le canzoni originali di Eddie Vedder pur mantenendo sempre una grande intensità soffrono alla lunga di una monotonia che addormenta di tanto in tanto il racconto. E, come chi lo dirige, anche il bravissimo Emile Hirsch ha qualche passaggio a vuoto, in particolare quando la sua recitazione deve farsi fisica, mentre torna a convincere quando interagisce con i vari personaggi che incontra durante il suo viaggio e che gli insegnano qualcosa in ogni piccolo gesto che compiono. Di certo avremmo preferito meno parole e meno spazio per le lezioncine di vita, ma di fronte all'immensità della natura e ad una storia così coinvolgente come possiamo non emozionarci?