"Commencing countdown, engines on". Inizia, come il film, con le celebri parole di Space Oddity la recensione di Stardust, l'atteso film di Gabriel Range su David Bowie che è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma del 2020. Il film, a causa della pandemia e della chiusura delle sale, non è mai uscito al cinema in Italia, ed è un po' scomparso dai radar, causa anche l'accoglienza un po' fredda che gli era stata tributata. Lo potete trovare in streaming a noleggio su iTunes. E, anche se non è un film completamente riuscito, ha qualcosa di interessante: ci mostra un Bowie - che se fosse in vita oggi, 8 gennaio, avrebbe compiuto 75 anni - prima del successo. Quella canzone, Space Oddity, non la sentiamo. Come saprete, gli eredi di Bowie hanno negato i diritti delle canzoni, evidentemente non convinti dal film. Invece di sentire Space Oddity vediamo delle immagini che rievocano 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, che è il film che ha ispirato la canzone di Bowie. Stardust ricostruisce un momento molto particolare di Bowie. È appena uscito il suo disco The Man Who Sold The World e l'artista è in procinto di partire per il suo primo tour americano. Ma David Jones non è ancora David Bowie, non sa ancora chi è. Stardust è un'origin story, come quelle che abbiamo visto in tanti film di supereroi. Bowie, per quanto riguarda il mondo dell'arte, un supereroe lo è stato davvero. E, come in ogni origin story che si rispetti, qui non è ancora completamente conscio dei suoi superpoteri. Come spesso accade in film di questo tipo, la ricostruzione del periodo storico e dell'atmosfera sono riuscite e molto interessanti. Ma come altrettanto spesso accade, del resto, Stardust non riesce davvero a cogliere l'anima dell'artista che racconta. Vediamo perché.
La trama: C'era una volta in America
1971: è appena uscito il nuovo disco di David Bowie (Johnny Flynn), The Man Who Sold The World. Il singolo, All The Madmen, non è andato affatto bene in America, e così non sta andando bene neppure l'album. È "troppo dark e troppo strano per gli americani", è "triste, depresso e confuso". Su 12 singoli, Bowie ha messo finora a segno solo due successi: Space Oddity e The Laughing Gnome. E allora, insieme con il suo manager, decide di partire per un tour negli Stati Uniti, in modo da far capire agli americani chi è davvero David Bowie. Ad accompagnarlo ci sarà Rob Oberman (Marc Maron), ufficio stampa della Mercury. Ma, a causa dei problemi con il suo visto, non potrà fare davvero concerti. Potrà parlare di sé, questo sì, ed esibirsi in feste private. Potrà rilasciare interviste, con la chimera della copertina di Rolling Stone. Ma, mentre è in giro per gli States, a Bowie vengono in mente una serie di suggestioni, capisce che deve presentarsi con un personaggio forte. e da qui prenderà vita, nel 1972, il suo alter ego più famoso, Ziggy Stardust.
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Origin Story, ma...
Stardust di Gabriel Range, come vi abbiamo detto, è un'origin story. Ed è chiaro che l'Eroe qui non è ancora nato, i suoi superpoteri non sono esplosi, la sua immagine non è ancora del tutto a fuoco. Il film, allora, ci presenta una persona in piena formazione. Ci potrebbe anche stare il fatto che il protagonista sia insicuro. Ma il Bowie che vediamo sul grande schermo è impacciato, svagato, mai sul pezzo. Quello prima di Ziggy Stardust è un Bowie poco documentato, e lascia spazio a qualche interpretazione. Ma, da quello che sappiamo, è stato un artista sempre molto determinato. In ogni caso, ammesso che il primo Bowie fosse davvero così, se fai un film su di lui oggi non puoi non considerare quello che sarebbe diventato: una rockstar mondiale, un artista tra i più grandi nella musica rock e non solo. Non puoi non fare i conti con la percezione che, ieri e oggi, il pubblico ha avuto e ha di lui. E non puoi, nel momento in cui lo ritrai, non gettare in lui il seme di quello che sarebbe diventato. E finire per farne l'opposto di quello che è. Senza togliere il fatto che viene rappresentato come un personaggio eccessivamente effemminato, nel senso classico in cui si presenta un personaggio di questo genere, cosa che Bowie non era. Ha creato dei personaggi dalla sessualità fluida, ha giocato con l'ambiguità, ma effemminato non lo era. Continuare a indugiare su abiti quasi femminili (come quello che indossava sulla copertina di The Man Who Sold The World, ma a cui viene dato spazio eccessivo) sulle scarpe con il tacco, significa stilizzare Bowie, incasellarlo, e non rendere davvero un gran servizio a quel personaggio complesso che era.
Johnny Flynn non riesce a farci credere di essere Bowie
E poi Stardust sbaglia la scelta del protagonista. Johnny Flynn è un uomo robusto, naso grande, labbra carnose. I suoi tratti sono molto diversi da quelli di Bowie, che erano spigolosi, il naso stretto, le labbra sottili. In parte è riuscito il trucco dei capelli lunghi e della veste lunga della copertina di The Man Who Sold The World ("Una Lauren Bacall?" "Più una moderna Garbo", sentiamo dire nel film) l'immagine del suo Bowie funziona in campo lungo. Ma nei primi piani no: non crediamo mai di stare guardando Bowie. Certo, il Duca Bianco su schermo pare davvero irrappresentabile. Eppure ci sono stati miracoli che hanno fatto sì che degli attori diventassero davvero la star che interpretavano, su tutti il Jim Morrison di Val Kilmer in The Doors e lo Ian Curtis di Sam Riley in Control. Sbagliare il protagonista, in questi casi, significa perdere gran parte dell'effetto del film. A questo punto, visto anche che il film è ispirato a un certo periodo di Bowie, appare nettamente migliore la scelta di Todd Haynes con Velvet Goldmine, quella cioè di creare un personaggio ispirato a Bowie, come Brian Slade, ma fortemente evocativo. Jonathan Rhys Meyers, in questo caso, non cercava la somiglianza, né la filologia nei costumi. Ma, per come costruiva il personaggio, evocava immediatamente il Bowie di Ziggy Stardust, creando non solo il ritratto vivido di un artista, ma riuscendo a evocare un mondo e un'epoca.
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Velvet Goldmine, il confronto è inevitabile
Il confronto con Velvet Goldmine è qualcosa a cui non si può sfuggire. Pur non essendo esplicitamente un film su Bowie, il film di Todd Haynes riesce a raccontare al meglio quello che è stato un periodo dell'artista, tra l'altro quello che viene immediatamente dopo quello raccontato in Stardust. Anche Todd Haynes non ebbe i diritti delle canzoni di Bowie (probabilmente per un altro motivo, perché l'artista aveva in mente di fare un suo film su Ziggy Stardust). Ma Haynes riuscì a creare un mondo musicale eccezionale, inserendo musiche di T-Rex, Roxy Music e gli Stooges di Iggy Pop. Qui ci sono delle canzoni di Jacques Brel e poco altro, che non aggiungono molto al film, anzi creano un effetto straniante. Succedeva lo stesso con il film su Jimi Hendrix, Jimi: All Is By My Side, con cui Stardust ha in comune un ritratto poco lusinghiero e un po' vuoto dell'artista (a dire il vero in quel film Hendrix ne usciva anche peggio di come esce Bowie qui).
Quello che segue è (quasi) tutto finto
Ma è proprio la costruzione drammaturgica a non funzionare qui. Vediamo un personaggio, il protagonista, provare e riprovare, e sbattere continuamente contro il muro, senza alcune progressione narrativa, senza alcuna crescita. Per poi avere una catarsi, e riemergere con il personaggio di Ziggy Stardust, come l'abbiamo conosciuto. I costumi sono i suoi: ma neanche qui l'attore protagonista è credibile. E quelle parrucche, sulla testa di Ziggy come su quella di Mick Ronson, lo sono ancora meno. La nascita di Ziggy avviene un po' come un fulmine a ciel sereno. Senza contare che, in mezzo, c'è stato Hunky Dory, non certo un disco da niente. "Quello che segue è (quasi) tutto finto" scrive Range all'inizio del suo film. E ce lo dice per farci capire che quello che vediamo è la sua interpretazione di quel momento della vita di David Bowie. Range aveva già camminato sul filo sottile tra realtà e finzione nel suo Death Of a President - Morte di un Presidente, mockumentary dove si usavano alcuni materiali veri, e una forma naturalmente associata alla verità, come il documentario, per raccontare una storia iperbolica e immaginaria. Qui si usa il cinema palesemente di finzione per raccontare una storia che non è vera, ma verosimile, che si muove su alcune basi fondate.
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Il David Bowie che verrà
Stardust, insomma, non si può considerare un film riuscito, almeno non completamente. È comunque un film interessante, che non entusiasma ma si lascia vedere, perché di un periodo poco noto di Bowie può essere intrigante provare a intuire qualcosa. È interessante anche il discorso della follia. Il fratello di Bowie aveva dei problemi psichici, ed era una tara ereditaria: il David Bowie che vediamo nel film è spaventato per il suo futuro, teme che la malattia mentale possa toccare anche lui. In generale la ricostruzione storica, i costumi, le scenografie funzionano. E funziona Jena Malone, bravissima, nel ruolo di Angela Bowie. E poi ci sono una serie di perle, inserite in sceneggiatura, che provano, queste sì, a farci vedere il Bowie che sarà. "Bisogna provocare la gente, farla reagire" sentiamo dire a Bowie. "Se non sai chi sei, inventati un altro" gli dice uno dei personaggi. Sono dei piccoli presagi del David Bowie che verrà. Un artista immenso.
Conclusioni
Nella recensione di Stardust vi abbiamo raccontato che, come spesso accade in film di questo tipo, la ricostruzione del periodo storico e dell'atmosfera sono riuscite e molto interessanti. Ma, come altrettanto spesso accade, Stardust non riesce davvero a cogliere l'anima dell'artista che racconta. È comunque un film interessante, perché di un periodo poco noto di Bowie può essere intrigante provare a intuire qualcosa.
Perché ci piace
- L'idea di raccontare un Bowie non ancora famoso è intrigante.
- La ricostruzione storica e l'atmosfera del film sono efficaci.
- È interessante anche il discorso sulla follia legato fratello di Bowie.
Cosa non va
- Il film non fa i conti con la percezione che, ieri e oggi, il pubblico ha avuto e ha di Bowie.
- Guardando Johnny Flynn non crediamo mai di stare guardando Bowie.
- La costruzione drammaturgica non funziona.