Lo dice lo stesso Robert Downey Jr., "questa non è un'opera sul rapporto padre e figlio, bensì è un'opera su qualcuno che ha fatto delle cose e ora non c'è più". E lo dice alla fine, come a voler chiudere un viaggio in cui vengono raccontate parallelamente due vite. Senza orpelli, senza finzione, senza l'accecante aurea da divinità di Hollywood. In parte c'è la vita di Downey Jr., ma soprattutto c'è quella di suo papà, Robert Downey. Del resto, il documentario in questione, Sr. (anche se "per il titolo si poteva fare meglio"), targato Netflix e diretto da Chris Smith, è essenzialmente l'epopea umoristica e meravigliosa di una personalità complessa e, di più, di un regista da rivalutare. La traslitterazione del perfetto newyorkese ("è nato per vivere a New York", ci dicono). La biografia di un uomo della strada prestato al cinema, che fino all'ultimo ha inseguito la luce perfetta, l'inquadratura di una vita, la sfumatura narrativa che lo hanno reso un autore scomodo per la sua epoca di riferimento - è stato attivo come regista dal 1960 al 1997.
Oggi, probabilmente, Robert Downey sarebbe un regista da Gotham Awards (basti pensare allo straziante Pound, nel quale compare, piccolissimo, proprio suo figlio con la sua prima e assurda battuta cinematografica, "Have any hair on your balls?"), ma spesso e volentieri i suoi film sono stati mal digeriti dalla critica, impreparata a cogliere le avanguardie stilistiche oggi ampiamente accettate e radicate. Insomma, una figura come la sua non meritava il solito documentario, e dunque la spontaneità di Sr. prende forma oltre ogni schema o confine (insomma, parliamo pure sempre di un newyorkese), sospinta da suo figlio e dall'occhio discreto di Chris Smith. Una chiave di messa in scena fondamentale, che rende il film una sorta di scatola cinese, in cui si mischiano le lacrime alle risate: c'è la famiglia, c'è il senso di smarrimento, c'è l'accettazione di una malattia infame, rintracciamo la sua profonda relazione con New York ("Dove ogni angolo è diverso e unico, mica come Los Angeles") e, naturalmente, c'è il cinema.
Una lezione di cinema
È impossibile non parlare dei Downeys (il vero cognome era Elias, ma essendo un cognome ebreo poteva risultare scomodo quando si arruolò volontario nell'esercito) senza valutare la cornice artistica e umana in cui sono nati e cresciuti. Infatti, Sr., gioca con empatia e trasporto sulla loro relazione plasmata attraverso l'arte, divenendo inevitabilmente una lezione di linguaggio cinematografico. Una lectio magistralis filtrata da una fotografia in bianco e nero - come se fosse un vecchio filmato amatoriale di famiglia - che scherza sui rispettivi approcci (è poi Robert Downey, bloccato al letto dal Parkinson, a controllare il montaggio e gli ultimi dettagli registici) e più in generale, diventa uno spaccato generazionale su come viene valutata oggi l'arte cinematografica.
Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta Robert Downey rifiutava le regole hollywoodiane abbracciando una certa satira anarchica (Putney Swope e Greaser's Palace sono due esempi che tornano spesso nel documentario) e, su questa strada, viene ideato il concetto amorevole ed emozionale che regge Sr.. Ci ritroviamo nella sua stanza, lo guardiamo negli occhi, ci affianchiamo a suo figlio, ascoltando una storia famigliare in cui non sono certamente mancate drammatiche difficoltà. Perché, rifiutando l'approccio classico, Sr. è stracolmo di digressioni, sguardi e inflessioni, redendo l'opera raffinata e certamente potente nella sua identità da flusso di coscienza.
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Il sound di New York e l'emotività di un'opera intima
Come detto, non mancano le risate, le confidenze, i siparietti tra papà e figlio, non mancano approcci probabilmente calcolati in fase di scrittura ma il senso finale di Sr. va poi (ri)trovato nella sua disarmante intimità. Sr., poco alla volta, finisce per guardare in faccia lo straziante attimo sospeso tra la vita e la morte - Robert Downey Sr. è morto nell'agosto 2021, e questo è il suo definitivo lascito -, e non neghiamo quanto l'emotività discreta data da Smith sia in fase di linguaggio che in fase di regia renda l'opera una diapositiva dalle meravigliose risonanze.
Non è facile affrontare la verità di un padre che ha dato delle droghe a suo figlio (era l'unico modo, secondo lui, di dimostrargli un certo amore), e non è facile per loro far pace con quei demoni che nemmeno la morte può far scomparire. Vanno accettati, liberati, addirittura compresi. Lacrima dopo lacrima, sussulto dopo sussulto. Intorno ad una cornice presumibilmente scritta, Sr. ha un cuore che batte con un ritmo placido, sicuro e genuino, come quando è il momento dell'elogio funebre di una persona cara: il peggio è passato, ora sta a noi fare i conti con quello che resta. Cinema, vita, famiglia sono, da sempre, la stessa cosa. E Sr., sorretto da una comicità intrisa nel dolore, è l'equazione esatta del concetto. A fare il resto, lo street sound e la folgorante luce di New York City, mentre Cat Stevens suona la calda On the Road to Find Out.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Sr. rimarcando quanto l'opera sia distante dal classico documentario, e si concentri invece su uno stile molto più intimo e legato alla figura di Robert Downey. Tra la famiglia, il cinema e l'amore per New York, quello che esce fuori è l'equazione perfetta che mette in relazione l'arte, la vita e l'amore.
Perché ci piace
- Ci fa (ri)scoprire un regista incredibile.
- L'umanità dietro le lacrime di Robert Doweny Jr.
- Lo stile. Intimo, doloroso, umoristico.
- La soundtrack, mai protagonista eppure ricercata.
- Il ritratto che si fa di New York.
Cosa non va
- Alcuni punti vengono probabilmente tralasciati, ma la durata di 90 minuti rende la visione sicuramente più sciolta.