Recensione Nuovomondo (2006)

Emanuele Crialese torna al cinema con un alito caldo di purezza assoluta, un'opera sospesa di "transizione", di contatti, di sensazioni vergini.

Sogni di latte scremato

Ortaggi e frutti giganteschi, generose piogge di denaro, fiumi di latte nei quali immergersi e nuotare senza paura: è l'America che abita i sogni dell'emigrante Salvatore Mancuso, la terra dell'abbondanza da raggiungere, con la benedizione di Dio, per dar corpo e respiro alle proprie speranze formato famiglia. Sicilia/New York, il vecchio e il nuovo che si scontrano, l'innocenza dell'essere uomini umili e l'arroganza di sentirsi superiori. Alle porte del mondo moderno per Salvatore e la sua gente non ci sono cartelli di benvenuto, ma nebbia e vetri orbi, attraverso i quali non è possibile vedere ciò che è oltre, la ricchezza che si arrampica sui grattacieli e arriva fin sopra le nuvole. Dopo gli ottimi risultati ottenuti in tutto il mondo con Respiro, incantevole perla sbucata dal mare di Lampedusa nel 2002, Emanuele Crialese torna al cinema con un alito caldo di purezza assoluta, un'opera sospesa di "transizione", di contatti, di sensazioni vergini, salutato a Venezia, dove è stato presentato in concorso, da un'autentica ovazione, evento ormai sempre più raro quando al Lido è di scena il cinema italiano.

I siciliani del '900 di Crialese lasciano una terra di rocce e rughe, che ancora si lascia calpestare a piedi nudi, sovrastata da uno spietato cielo plumbeo, dove il futuro appare lontanissimo, in un altro luogo, in un altro tempo. Niente musica in quei territori ancora primitivi, nessuna melodia nostalgica all'abbandono del proprio grembo, ma il rumore sordo del silenzio che accompagna una vita dal gusto incontaminato, immersa nella solitudine di case di pietra. Crialese fa muovere i suoi personaggi tra dubbi e incertezze, in territori rocciosi che si tuffano nel mare, per poi accompagnarli in un viaggio transoceanico verso il florido ignoto, sulla più classica delle navi della speranza, tra le ombre della stiva dove i corpi si ammassano e si confondono, senza più contorni distinguibili, quasi tramutandosi in fantasmi. Il viaggio diventa occasione di studio, tempo di scoperte, di pettegolezzi, di segreti svelati, di giochi di sguardi, ma soprattutto è preparazione alla realtà in cui si vuol mutare il sogno, e al peso insopportabile delle disillusioni di piombo.

Crialese lascia fuori campo la magnifica America, la tiene lì, a portata di mano, eppure ancora un miraggio. Sullo schermo, infatti, il nuovo mondo rimane solo nelle fantasticherie del protagonista, negli inserti surreali che il regista romano innamorato della Sicilia dissemina lungo tutto il film. La famiglia Mancuso non ha passato, non si sa molto dei suoi componenti, ma non importa: ci basta guardare i loro occhi per conoscerli, per ritrovare l'ansia di chi si lancia in un mare buio, perché in fondo quando si parte per far fortuna si è tutti un po' più uguali. Il primo contatto (nonché l'unico che il regista ci mostra) tra gli emigranti e il nuovo mondo è quello con le leggi della spietata civiltà moderna, il centro d'accoglienza di Ellis Island, dove un'umiliante visita medica può decidere il destino di sognatori analfabeti e impauriti, che vorrebbero essere accolti da braccia aperte, ma si ritrovano nudi, a mostrare la lingua, costretti a sottoporsi a stupidi giochi d'intelligenza. Ma agli ordini e alle regole preconfezionate dei guardiani della porta d'oro il protagonista del film risponde con il suo candore poetico. Qualcuno potrà proseguire nel sogno, qualcun altro sarà rimandato a casa per non aver accettato di piegarsi alla banalità delle leggi dell'uomo moderno. E il film di Crialese finisce intelligentemente proprio lì dove comincia la Storia, nelle bracciate già senza energia dei nostri antenati nel mare magnum americano.