Parole, parole, parole. Certo, tecnicamente e teoricamente, Sly di Thom Zimny, è un documentario. Praticamente è invece una sorta di auto-confessione. Anzi, un'auto-analisi intima che parte da molto lontano. E una frase è particolarmente simbolica: "Ogni volta che cambia il paradigma a cui siamo abituati, ripartiamo da zero". Ecco, con onestà e lucidità, Sylvester Stallone traccia il punto del suo viaggio, confessando se stesso, e l'istinto che lo ha sempre accompagnato. Nel bene e nel male. Perché, ciò che esce fuori in Sly, disponibile in streaming su Netflix, è la costante lotta di una star per imporre il suo credo (narrativo) nell'industria cinematografica statunitense (e quindi mondiale), superando le insicurezze tipiche dei grandissimi.
Ogni viaggio è "burrascoso", è "complicato", e forse nemmeno porta ad una vera conclusione, ma la cosa più importante "è provarci". Stringato nella forma - Stallone sempre al centro, a briglia sciolta, che si aggira nella casa di Los Angeles, intanto che si alternano interviste, spezzoni dei suoi film, materiale di repertorio - profondo nel contesto, Sly è una sorta di romanzo americano che segue un'altalena di eventi, mescolando i successi e le cadute di un mito. E parte da un presupposto in qualche modo universale: un trasloco. Aggirandosi tra le enormi stanze della sua casa di LA, Stallone ripercorre ogni dettaglio e ogni momento della sua vita, tirando una linea di confine. Cimeli, premi, suggestioni. Le scartoffie sparse su una scrivania, le registrazione delle prime interviste che gracchiano da un vecchio recorder.
Sly: il bene che trionfa sul male
Prima di lasciare il suo tempio, allora, Sylvester Stallone, definita da Quentin Tarantino "la prima star a dirigersi", decide di confessarsi in un'opera sincera che, a tratti, diventa un manuale di cinematografia. Un documentario da studiare, l'emblema del paradigma pop, e l'umanità che prende il sopravvento in ogni smorfia e in ogni sillaba. Dietro la convulsa genesi di Rocky (che si prende buona parte del racconto), o dietro la riscrittura di Rambo, personaggio tragico e frammentato, è il privato che lascia storditi. Sylvester Stallone la prende larga, ci gira intorno, e poi va al punto. Racconta dell'infanzia, dura a Hell's Kitchen, e di quando affacciato alla finestra sembrava di assistere ad un film in carne ed ossa. Racconta di quella mamma eccentrica, e racconta del celebre ghigno stampato sul volto a seguito di un incidente in sala parto.
Ma racconta soprattutto di quel padre oscuro e violento che "sembrava uscito da un libro di Arthur Miller". Ogni filo del lungo discorso, infatti, pare influenzato da una figura paterna "aggressiva e violenta". In questo caso, e come accade a molti - per questo Sly è un documentario universale -, Stallone cercava rifugio nel cinema. Il cinema, per Sly, era la via d'uscita. Ed era l'aspirazione e il riferimento, nonché materiale formativo ed educativo. Del resto, uno dei passaggi più importanti del film di Thom Zimny (celebre per le sue molte collaborazioni con un'altra leggenda americana, Bruce Springsteen) è il riferimento di Stallone al suo ideale: "Passavo le giornate al cinema, coltivavo il culto dell'eroe. Del bene che trionfa sul male".
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Il racconto di Sylvester Stallone
Un'ideale che lo ha accompagnato - e lo accompagna tutt'ora - come uomo e come artista, smuovendo la sua voglia di diventare un autore capace di avere il pieno controllo dei suoi personaggi. Come con Rocky, concepito pensando a Marlon Brando in Fronte del Porto e scritto in netta risposta alla figura paterna ("avrei voluto un padre come Rocky"), e poi proiettato per la prima volta in un cinema di New York dove aveva lavorato come usciere. Cinema e vita che si mescolano insieme, la presa di coscienza di quanto "ogni vetta raggiunta è un luogo solitario", e il manifesto accecante di quanto ognuno meriti una seconda possibilità. La spiegazione grammaticale dell'underdog e dello sconfitto, mentre il camion del trasloco comincia ad appesantirsi, tra statue, cimeli e ricordi, Sylvester Stallone continua imperturbabile il suo racconto, tanto che il regista quasi si mette da parte.
Di sangue, di leggende e di cinema
Vengono sfiorati alcuni titoli - da Cop Land a I Mercenari, passando per il flop F.I.S.T. -, arricchendo la narrazione da testimonianze importanti come quella di suo fratello Frank o di Arnold Schwarzenegger, e ancora di Tarantino o di Henry Winkler, che ha delineato l'icona Fonzie pensando proprio a Stallone in Happy Days - La banda dei fiori di pesco, uno dei primi film di Stallone che, a discapito del titolo, non c'entrava nulla con la mitica sitcom. Come dicevamo, una montagna di parole (anche ad effetto). Tuttavia, è lo sguardo di Stallone che colpisce, e lascia attoniti. Più dei film, più dei lividi, più di Stallone stesso, sono le sensazioni di un uomo ad alterare il filo del racconto, portandoci ad un finale accecante e commovente.
Tira dritto Stallone, ammaccato ma determinato, con gli occhi lucidi quando ripensa a I leoni d'inverno di Anthony Harvey, quel vecchio film che gli ricorda suo padre. Perché? "Perché è un film che spiega l'esigenza umana: l'amore corrisposto". È chiaro infatti che l'intera figura di Sylvester Stallone, scevra dalla mitizzazione, sia interrotta e segnata da un vuoto enorme, colmato dalla necessità fisiologica di raccontare storie, spiegando che gli "eroi, alla fine, non muoiono mai davanti i nostri occhi". Ma, in un colpo narrativo finale, che anticipa la straziante Come On Up to the House di Tom Waits, l'eroe Stallone diventa di nuovo umano, spostando l'attenzione sulla nevralgica realtà. Perché l'immaginazione è fondamentale, ma la vita è un'altra cosa. La famiglia è un'altra cosa. Sanguinare, cadere, rialzarsi e amare. Conta solo questo.
Conclusioni
Sylvester Stallone si racconta in Sly, documentario Netflix dalla forte impronta personale. Come detto nella recensione, il film traccia un punto sulla vita privata di una leggenda, e ripercorre la sua storia: l'infanzia a New York, Rocky, gli eroi buoni e, soprattutto, la figura violenta di un padre incapace di amare. Sly colpisce, quindi, per sincerità e per intonazione, suonando come un romanzo biografico capace di immortalare i sogni e gli incubi di un uomo prima che di una star.
Perché ci piace
- Sylvester Stallone!
- La sincerità.
- L'intimità del racconto.
- Tom Waits, sul finale.
- Il coraggio di dire certe cose.
Cosa non va
- Forse dura poco, e forse alcuni passaggi vengono frettolosamente saltati.