Da Roma a New York passando per Beirut: nel 2019 con il suo primo documentario Sisterhood, Domiziana De Fulvio decideva di raccontare dai campi di basket di tre città diverse storie di sorellanza e piccole rivoluzioni attraverso un modo nuovo di fare sport. Giocare a basket per le donne della Real Palestine Youth del campo profughi di Shatila a Beirut, per le Bulle della Ex-Snia di Roma (con le quali ha giocato la stessa De Fulvio) e le Ladies Who Hoop di New York, ha sempre significato ben altro che condividere un semplice campo di gioco: luogo di riscatto e riappropriazione di uno spazio esclusivamente femminile dove ci si "marca a donna" e si fa gruppo, portando avanti consapevolmente o meno una lotta di liberazione dai modelli patriarcali dominanti. Oggi Sisterhood, dopo un viaggio che lo ha portato dai festival a piccole uscite in sala, torna a far parlare di sé: questa volta per approdare a un pubblico più ampio, grazie a RaiPlay dove è disponibile dal 25 novembre. La speranza, ci racconta la regista, è che "parli alle ragazze più giovani e le aiuti a creare qualcosa insieme ad altre donne".
Il basket femminile tra Roma, New York e Beirut
Che significato ha oggi per te la "sorellanza" e che cosa rappresenta per le protagoniste del tuo documentario?
Per me è stata fondamentale. Il progetto nasce da un punto di vista personale: io stessa ho avuto l'opportunità di giocare a basket in un contesto di sport popolare. Così per diversi motivi e in periodi differenti ho conosciuto le ragazze delle tre squadre attraverso il gioco sul campo, e solo dopo sono diventate le protagoniste del documentario. In campo ho creato delle relazioni di lotta, di sorellanza, rapporti amicali che poi si sono trasformati e mi hanno ispirata dandomi la voglia di raccontarle. Ho voluto rappresentare altri modi possibili di stare al mondo, riprendendo anche slogan di più di vent'anni fa; il senso era parlare di legami fra donne adulte per le quali è sempre più difficile ritagliarsi dei momenti ludici, e quindi raccontare una realtà che va a sovvertire il modello di famiglia dominante, che continua a essere riproposto nella nostra società e ancora di più in Italia.
E questo cosa comporta?
È difficile accettare dei legami così potenti che non vengano da relazioni parentali o di sangue. Quello che fanno queste donne in tre contesti differenti, New York, Roma e Beirut, è già un un'azione politica, come facevano le scritte delle femministe negli anni '70. E ognuna lo fa a modo suo in base al contesto di appartenenza: la lotta delle ragazze palestinesi e l'integrazione con quelle libanesi nel campo rifugiati di Shatila a Beirut, le donne di Haarlem e il loro bisogno di creare uno spazio protetto non solo per le adulte ma anche con le più giovani, e infine quelle di Roma che si ritrovano in uno spazio occupato partecipando più attivamente a delle lotte femministe. Anche se ognuna in maniera più o meno consapevole sta praticando una lotta; Sisterhood è una linea continua che va avanti dagli anni '70 ad oggi e lo racconta con lo sport, quello praticato fuori dalle federazioni dove non ci sono classifiche, né l'ansia di dover vincere una partita. Qui l'idea è di andare a giocare insieme ad altre donne e amiche. Tre città, tre squadre e tre modi diversi di giocare e di portare avanti la propria lotta.
Cosa le accomuna?
Il linguaggio dello sport è universale e diventa un mezzo importante per conoscersi, perché ci si può parlare anche attraverso il gioco, pur non conoscendo una lingua. Tutte sono mosse da un intento: creare uno spazio protetto, all'aperto o al chiuso, ma che sia separato e solo per donne, dedicato esclusivamente al loro tempo e che non sia contaminato da nessuno.
Cosa invece le divide?
Una differenza importante che mi ha colpito molto è stato, ad esempio, che la squadra romana e quella americana ci tengono molto ad essere viste, ad andare quindi a giocare al campo all'aperto, a marcare il territorio, mentre le ragazze a Beirut reclamano la possibilità di uno spazio al chiuso per avere un momento un po' più protetto invece di stare all'aperto dove al contrario si è molto visibili, non hanno ancora quella necessità, la loro esigenza primaria è intanto rafforzarsi. La squadra palestinese è stata inoltre un buon collante anche per creare dei legami con le ragazze libanesi che fino a prima di conoscerle non sapevano nulla della questione palestinese, né della presenza di un campo rifugiati a pochi chilometri dalle loro case.
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Un nuovo modo di fare sport
L'unico uomo che vediamo nel documentario è il loro allenatore...
Majdi è un cinquantenne che appartiene a una generazione molto influenzata dai limiti di una cultura patriarcale, in cui alle donne non è permesso di fare determinate cose. Ma è un uomo che è riuscito a superarli e ha fatto un lavoro molto importante su se stesso: ha capito di dover rompere determinate barriere, è lui che ha creato la squadra delle Real Palestine Youth e oggi sta iniziando a lasciare il testimone. Da un annetto le ragazze ne hanno assunto la guida e anche loro come le americane hanno cominciato un percorso con le più piccole.
Come hanno reagito alla visione del documentario?
La reazione comune è stata quella di volersi conoscere, sono state tutte molto curiose e incuriosite dalle altre realtà.
Sono riuscite a incontrarsi?
Ci abbiamo provato, alcune si sono viste in occasioni pubbliche durante le presentazioni ai vari Festival e nel primo lockdown abbiamo fatto delle call su Zoom. Abbiamo cercato di trovare anche un modo per far andare le palestinesi in America, ma purtroppo non siamo andate molto avanti.
Cosa rappresenta il campo per le protagoniste di Sisterhood?
È un luogo protetto senza pregiudizi in cui come nelle assemblee femministe si cerca il proprio contesto per conoscersi, è il posto in cui si è libere di parlare in primis con il proprio corpo per poi arrivare a parlare anche d'altro.
Cosa hai imparato da queste storie?
Mi sono sentita molto accolta in tutti e tre i contesti, quando per esempio ho iniziato a giocare con le Ladies Who Hoop di New York, nessuno nonostante in confronto fossi una schiappa mi ha mai ridicolizzata, e qualche ora dopo ero già a cena con loro. Aldilà dello sport si creano una relazione e una solidarietà che fanno venir voglia di uscire fuori dai propri contesti, superare i propri limiti ed essere più aperte e accoglienti.
E qual era il tuo limite?
Banalmente anche quello di dover cominciare un'attività fisica di gruppo da adulta, ciò che magari viene più proposto a delle donne di quell'età è il corso di zumba in palestra, ma non è che ci sia molto scambio. Si tratta di un altro modo di fare sport, perché ciò che spesso oggi manca sono i rapporti di strada, quelli che prima si creavano con le manifestazioni universitarie o nel territorio dove abitavi. Le protagoniste di Sisterhood ricreano proprio questa possibilità, offrendo uno sport senza ansia da prestazione, una preparazione atletica o una determinata competenza, a cui partecipano perlopiù le donne che fanno parte di quel luogo. Vuol dire un po' anche rivivere il territorio che abitiamo.
Sono passati tre anni da quando hai girato il documentario. Che fine hanno fatto queste squadre? Esistono ancora?
Le Bulle di Roma, che non si chiamano più così perché ci sono state delle scissioni, non hanno più un'allenatrice, la grande novità è che oggi sono una squadra completamente autogestita. Le squadre di Beirut e New York continuano a esistere, ci sentiamo ma non ci siamo più viste e abbiamo anche in mente di fare qualcos'altro insieme, magari lavorare con le generazioni più piccole.