Signs: tra Shyamalan e Mel Gibson. Vent'anni dopo il terrore alieno è ancora da brividi

I cerchi nel grano, Dio, gli UFO, una famiglia, Mel Gibson e Joaquin Phoenix: Signs, il film di M. Night Shyamalan, usciva il 2 agosto 2002, e rivedendolo oggi fa ancora (molta) paura.

Mel Gibson e Rory Culkin
Mel Gibson e Rory Culkin

I film sugli alieni si dividono in tre macro-gruppi. Il primo, quello che li vuole affabili, pacifici, a volte buffi, esploratori intergalattici dalle buone intenzioni verso gli umani. Il secondo gruppo si rifà ad una narrazione oggettiva e scientifica, senza perdersi in digressioni favolistiche. Il terzo gruppo invece vuole gli alieni come esseri spietati, affamati conquistatori di mondi. Gli esempi tangibili? Andando in ordine di gruppi, E.T. L'Extraterrestre, Contact e Signs. E proprio Signs, il quinto film di M. Night Shyamalan, potrebbe essere considerato come la risposta nichilista e oscura a opere come Incontri ravvicinati del terzo tipo, pur mantenendo una scrittura che mette l'uomo tormentato al centro della vicenda. Rivedendolo oggi, a vent'anni dalla release (uscì negli USA il 2 agosto 2002, in Italia arrivò ad ottobre), ci si accorge quanto la pellicola, dietro una cupissima storia di extra-terrestri e cerchi nel grano, nasconda appunto una profonda riflessione sul senso della fede, sul senso della religione e sulla ragione che finisce per scontrarsi con la presenza (in)certa di Dio. Temi altissimi, rivisitati sotto forma di un blockbuster sci-fi atipico che, a fronte di "appena" 72 milioni di dollari, incassò nel mondo ben 408 milioni, diventando uno dei top movie dell'estate 2002, nonché il secondo maggior incasso di Shyamalan subito dopo un cult come Il sesto senso.

Una scena di Signs
Una scena di Signs

MEL GIBSON, GLI ANNI DUEMILA E... MARK RUFFALO

Mel Gibson e Joaquin Phoenix in una scena di Signs
Mel Gibson e Joaquin Phoenix in una scena di Signs

Tutt'ora, la grande forza di Signs risiede nell'atmosfera, nel cast e in particolar modo nella sua allure da cinema nostalgico, considerando anche la produzione e distribuzione affidata ad un marchio ben impresso nella memoria collettiva: la Touchstone Pictures. Nonostante siano passati "appena" vent'anni, la pellicola infatti la si può considerare come una tra le più rappresentative di un'epoca d'oro, in cui le idee erano il motore di un cinema che appariva davvero senza confini. Gli inizi del Duemila, pur segnati dalla tragedia dell'11 Settembre, segnarono per Hollywood un passaggio fondamentale, a cominciare da una transizione rivoluzionaria: l'analogico diventava digitale. Di conseguenza anche il mercato home video cominciò pian piano a cambiare, tanto che la versione home video di Signs fu un successo di vendite e noleggio, nello switch tra VHS e DVD. E pensare che M. Night Shyamalan, esponente assoluto di quel cinema che oggi tanto rimpiangiamo, volle girare Signs per la sua smodata voglia di lavorare con Rory Culkin e Mark Ruffalo, dopo averli visti e amati in Conta su di me di Kenneth Lonergan. Purtroppo però in fase di produzione dovette rinunciare a Ruffalo, in quanto l'attore dovette affrontare una delicata operazione al cervello. Così, la scelta ricadde su Joaquin Phoenix (che ritroveremo in The Village), che affiancò Culkin, la piccola Abigail Breslin e il protagonista assoluto, Mel Gibson, che si disse in difficoltà nell'interpretare un pastore protestante, pur restando molto colpito dalla script.

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L'ACQUA E IL TERRORE: OLTRE GLI ALIENI

Joaquin Phoenix e Mel Gibson in una scena di Signs
Joaquin Phoenix e Mel Gibson in una scena di Signs

Già perché Signs non è solo un film sugli alieni e su una spaventosa invasione: bensì è anche un'interessante disamina su cosa stesse diventando la Fede, e sulle sue innumerevole asincronie. La storia, ricorderete, ha per protagonista la famiglia Hess, in cui troviamo Graham, papà di Morgan e Bo, scosso dalla perdita di sua moglie, e il fratello più giovane di Graham, Zio Merrill (Phoenix). Una perdita dolorosa che gli ha fatto smarrire la fede in Dio. Parallelamente, attorno alla loro fattoria, nella contea di Bucks, Pennsylvania, cominciano ad accadere fatti decisamente strani: dei misteriosi cerchi nel grano compaiono nei loro campi. Uno scherzo di cattivo gusto? No. Perché gli stessi cerchi cominciano via via ad apparire in altre zone del mondo, insieme ad apparizione sempre più frequenti di UFO: l'invasione pare essere iniziata, e lo scetticismo di Graham finisce per essere fatto a pezzi da un'evidenza aliena sconvolgente. Ed è allora che Sings diventa pure storia famigliare, soffermandosi sul senso della perdita, sul rimorso, sul torpore delle emozioni. Tramite un incontro ravvicinato - eccezionale la maestria di M. Night Shyamalan nel creare terrore senza quasi mai mostrare direttamente le sembianze degli alieni - la famiglia Hess riscoprirà sé stessa, provando a ripartire da una purezza perduta e ritrovata, casualmente, grazie ad una similitudine, l'acqua. L'acqua nel film è l'elemento predominante e l'arma temuta dagli extra-terresti, ma è anche pulizia e vita, ha valore religioso ed è soprattutto metafora di rinascita.

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Joaquin Phoenix  tra i piccoli Rory Culkin e Abigail Breslin in una simpatica scena di Signs
Joaquin Phoenix tra i piccoli Rory Culkin e Abigail Breslin in una simpatica scena di Signs

UNA GRANDE COLONNA SONORA

Mel Gibson, Joaquin Phoenix, Rory Culkin e Abigail Breslin in una scena di Signs
Mel Gibson, Joaquin Phoenix, Rory Culkin e Abigail Breslin in una scena di Signs

Appunto, il terrore. Dietro gli aspetti filosofici, Signs resta tutt'ora un grande esempio di cinema d'intrattenimento. Shyamalan dimostrò di saperci fare dal punto di vista tecnico e visivo, creando un marcato senso di suspance grazie al fatto di non mostrare palesemente gli alieni. Ci sono, li sentiamo, li percepiamo, appaiono come ombre e inquietanti figure carpite da una telecamera tremolante (e la scena del compleanno brasiliano vale da sola la visione...), ma sono funzionali ad una narrazione che gioca forte sull'immaginazione del pubblico, trovandosi a metà tra un'invasione aliena e un sentimentalismo che esplode sopra al dolore di un padre fortemente controverso. Dunque, ci si rispecchia, ci si immedesima, ci si domanda cosa avremmo fatto noi al posto della famiglia Hess. Un'economia cinematografica ad effetto, enfatizzata poi da un paio di elementi magistrali: la fotografia di Tak Fujimoto e le eccellenti musiche di James Newton Howard, che finiranno per dare l'umore alle sequenze, facendo aumentare o diminuire la tensione implacabile delle immagini. Il tutto, accompagnato da una fatidica domanda che, vent'anni dopo, continua a non mollarci: ma gli alieni, sono buoni o sono cattivi? Nel dubbio, meglio rifugiarsi sotto la doccia.

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