Recensione La guerra di Mario (2005)

La personalissima battaglia di un bambino difficile e della sua mamma putativa in un sistema che si ritiene in grado di poter risolvere ed esaurire i sentimenti a colpi di commi e articoli.

Siamo tutti dei piccoli Mario

La Fandango e il suo patron, Domenico Procacci, puntano ancora, coraggiosamente, sul cinema italiano, anche (e soprattutto) se modestamente di nicchia. Quella di Antonio Capuano è infatti una piccola produzione che, se vogliamo, va a toccare argomenti e tematiche consuete per un certo tipo di cinema nostrano. Quelle del disagio giovanile, della depressione meridionale, dell'incontro/scontro tra l'Italia del benessere e quella dell'indigenza, su problematiche socio/assistenziali ampiamente già trattate sul grande schermo.
E così ritroviamo il piccolo Mario - un sorprendente Marco Grieco - bambino "difficile", trascinato al di fuori della periferia napoletana e dato in affidamento a una coppia di quarantenni della borghesia colta e agiata, apparentemente soddisfatti da una routine poco problematica.

L'impatto del ragazzino con la quotidianità dei due genitori affidatari - interpretati da Valeria Golino e Andrea Renzi - genererà una spirale di affanni, disagi e preoccupazioni che investiranno tutti e tre i protagonisti. Il castello narrativo s'innesterà su questa tensione tra cosa sia "giusto fare", a rigor di logica, a rigor di legge, e quella passionalità e densità di affetti e sentimenti che scaturiscono da un vissuto così profondo e articolato.

Capuano è reduce da Luna rossa, presentato in concorso nel 2001 a Venezia, dove l'abilità nel dettagliare caratteri e personalità mancava totalmente, o, se c'era, non ce ne eravamo proprio accorti. Stupisce, così, vederlo districarsi con una certa delicatezza su tematiche che di una mano leggera ma decisa fanno necessità, pena la totale non credibilità dell'azione filmica. Il dettaglio, a partire dalla stesura dello script, è curato attentamente e scrupolosamente, dando la possibilità di una lettura dell'immagine, e dei personaggi che in essa si muovono, precisa e ficcante.
Distaccandosi dal particolare, e cercando di delineare un quadro più a tutto tondo del film, non si può però far a meno di notare una certa approssimazione nello scioglimento degli snodi narrativi, una certa frettolosità nell'indicare il "senso", lo scopo di azioni e sequenze.

Si cerca di forzare narrativamente il giudizio complessivo della pellicola, forzatura che viene comunque ben bilanciata dalla già accennata precisione nella delineare i singoli personaggi e le singole dinamiche interne.
Il tutto inserito in una realizzazione che, per parole dell'autore, è "frugale, disadorna" che tende in qualche modo all'annullamento di un determinato stile registico. "Niente belle inquadrature" - continua il regista - "niente bella fotografia...Fondamentale è cosa ho inquadrato, non come". Sta tutta qui l'analisi della messa in scena, del tutto funzionale ad un finale altrettanto scarno, disadorno e disarmante.

Un film duro, sincero, seppur minato da una possibile accusa di poca coerenza e poca coesione, che non può far a meno di cadere nella sensazione del "già visto". Eppure lo affronta, se possibile, in modo "diverso".