Lo squillo di un telefono. Tanto è bastato a Wes Craven per spaventare il pubblico di tutto il mondo 25 anni fa. Un quarto di secolo dopo Scream continua a dimostrarsi uno dei film horror più celebri, famosi e riconoscibili, un successo che ritorna in auge grazie a un quinto capitolo di prossima uscita. Merito di un'idea semplice e geniale, merito di una sceneggiatura che metteva in mostra le regole del genere, denunciava i trucchi del mestiere ancora prima della rivoluzione post-moderna e riusciva a trovare un efficace equilibrio tra terrore e commedia. E soprattutto, merito di una maschera bianca e nera, ispirata all'Urlo di Munch, che è diventata presto un'icona. Forse l'ultima di un cinema che sembra essere sparito.
Il terrore corre sul filo
In un mondo ancora analogico, la paura che correva sul filo del telefono di casa era l'ennesima variazione di un'idea di terrore che il regista aveva rappresentato sin dal suo primo sconvolgente film, L'ultima casa a sinistra. Era il 1972 e lì erano i genitori borghesi di una ragazza che si trasformavano in mostri vendicativi, facendo fluire una rabbia violenta che sconvolgeva e turbava. Perché quei cari signori potevano essere i vicini di casa di chiunque. Che fosse la televisione di Sotto Shock, il razzismo americano ne La Casa Nera o gli incubi popolati da Freddy Krueger in Nightmare - Dal profondo della notte, Craven è riuscito a rendere spaventosi la normalità e il gesto quotidiano. Come rispondere al telefono. Nel 1996 il genere horror, e in particolare lo slasher, sembravano essere arrivati a un punto di non ritorno dopo un decennio, quale quello degli anni Ottanta, particolarmente florido, ma a cui seguì un forte declino. Difficile, attraverso un pubblico sempre più abituato (e annoiato) alle dinamiche del genere, creare tensione e divertimento orrorifico. Serial killer distanti dalla realtà, di natura sovrannaturale, che smettevano di fare paura, che rendevano l'omicidio sullo schermo uno stanco reiterarsi senza inventiva. La doppia soluzione arriva dallo sceneggiatore Kevin Williamson (poi sceneggiatore di Dawson's Creek): tornare alla realtà, a quella concezione del primo Halloween - La notte delle streghe di John Carpenter (che, di fatto, inventò lo slasher moderno, prendendo la lezione di Mario Bava) e costruire un film moderno, dove l'assassino (vero, reale, tangibile) avrebbe usato lo strumento di comunicazione adatto per chiamare aiuto. E anche giocare con le regole stesse del genere. In Scream i ragazzi conoscono a memoria i film dell'orrore, sanno come comportarsi, sanno come reagire. A cavallo tra citazione, omaggio, nostalgia e novità (tutti elementi che ritroviamo nel cinema mainstream oggi), il terrore era appena ritornato tra le mura di casa.
Scream: come il film di Wes Craven ha cambiato per sempre l'horror. O quantomeno ci ha provato
Il gioco della morte
Il trucco di Scream è tutto qui. Nel fare un gioco con i personaggi del film e lo spettatore, entrambi consapevoli di quello che accadendo. A partire da quel quiz mortale nel quale cade Drew Barrymore (una sequenza iniziale che ancora oggi è un perfetto cortometraggio di tensione) sino al più classico dei whodunit. Nel mezzo una serie di personaggi imperfetti, umani e normali, cinefili e ben ancorati alla realtà, che diventano a loro modo perfette vittime di Ghostface e, allo stesso tempo, sospettati. Unendo terrore e commedia, tensione e distensione, Wes Craven crea un meccanismo cinematografico invidiabile. Sarebbe errato considerare Scream un'autoparodia del genere solo per la maniera in cui rappresenta, rispettandole, le regole degli slasher e per l'umorismo presente durante tutta la durata del film. Si tratta di un rinnovamento nel linguaggio del film horror, che mette da parte l'eccessiva serietà per abbracciare un nuovo tipo di pubblico, più consapevole. Permette allo spettatore di prendere parte al gioco in maniera convinta e intelligente. Perché l'horror, per funzionare, ha bisogno di fare paura. E Scream riesce a farlo, proprio grazie all'alternanza di momenti seri con altri più leggeri, sacrificando i jump scare, il paranormale (come gran parte dei film horror di oggi) e la maniera più pigra di portare in scena l'orrore. Con quest'equilibrio Williamson e Craven portano il film allo stesso livello degli spettatori, instaurando un legame che non sente debolezze a distanza di anni. Non solo: il film di Wes Craven costruisce un'icona, un personaggio riconoscibile, talmente potente da rimanere indimenticabile.
L'ultima icona dell'horror
Ghostface. Così viene generalmente chiamato il serial killer, sempre diverso, dei capitoli di Scream, per definire al meglio l'identità della maschera stessa, ormai appartenente all'immaginario collettivo. Così famoso che persino nel prologo di Scream 2, distribuito solo un anno dopo il primo film, si fa riferimento alla fama iconica della maschera mostrando una sala cinematografica in cui ogni singolo spettatore la indossa. Ghostface diventerà l'ultima grande icona del cinema horror, quasi a mettere il punto di una lunga lista di celebri assassini, come Michael Myers (Halloween), Freddy Krueger (Nightmare), Jason (Venerdì 13) o Leatherface (Non aprite quella porta). Simbolo di un genere che, nonostante il successo della saga di Craven, avrà vita breve, divorato dalle derive più estreme del torture porn o dai remake degli anni Duemila. Ancora oggi, forse con l'eccezione di Jigsaw, Ghostface non ha avuto un erede. Almeno forte come lui. Perché nel frattempo, quel tipo di horror sembrava aver detto tutto: con Scream è finita un'era. Attraverso il suo linguaggio metatestuale, la stessa saga ha riflettuto sul genere horror e, attraverso i suoi sequel, si è fatta portavoce di un'industria ormai -questa sì- parodia di sé stessa. Come un supereroe al rovescio, Ghostface è una maschera che travalica la singola persona che la indossa, oltrepassa i confini temporali, cambia e muta in base ai tempi, rimanendo sempre fedele a sé stessa. Trovando ad ogni decennio una maniera per spaventare il pubblico attraverso la quotidianità.