Sanctuary, la recensione del film con Margaret Qualley: dominare o essere dominati

Presentata in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2022, Sanctuary, l'opera seconda di Zachary Wigon, è un'energica riflessione sul paradosso del potere e sui ruoli sfumati dell'uomo e della donna nella società contemporanea.

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Sanctuary: Margaret Qualley in una scena

L'inquadratura si muove lentamente. Dai piedi del protagonista - in soggettiva - si sposta sulla confezione di un prezioso orologio e poi ancora verso la finestra e il suo panorama, solo e unico spiraglio d'esterno in un'opera dalla precisa costruzione teatrale, chiusa, di fiato scenografico corto. È il preludio a un incontro, quello tra Hal (Christopher Abbott) e Rebecca (Margaret Qualley): lui affascinante uomo d'affari con una prodigiosa carriera davanti, lei una dominatrice, che nelle pratiche sadomaso è "la padrona" dell'uomo, colei che sottomette l'altro, volontà o fisico che sia. La sessione inizia nel momento stesso in cui Rebecca entra in scena, e da lì è un continuo crescere e mutare, spingendo tanto lo spettatore quanto i protagonisti a domandarsi quale sia il confine tra fantasia e realtà. Diretto da Zachary Wigon, il film si intitola Sanctuary ed è la prima e vera sorpresa della 17a Edizione della Festa del Cinema di Roma. E in questa recensione vogliamo provare a spiegarvi il perché.

La psicoterapia della sopraffazione

Alla sua seconda opera, l'autore di The Heart Machine torna al thriller e al romantico, questa volta più perverso. Pur rappresentando la safe word di Hal, Sanctuary è un titolo che immortala già nel nome alcune intenzioni concettuali dell'opera, come ad esempio la sua puntigliosa costruzione dialogica e cinematografica, dove nulla è lasciato all'improvvisazione o ai cambi di percorso. Un vero e proprio santuario nel quale rinchiudersi per riscoprirsi intimamente e spiritualmente, tecnicamente cerimonioso ma anche ricco di virtù, tra il sacro e il profano.

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Sanctuary: una scena del film

In paragone con il più recente Andrew Dominik di Blonde, anche Wigon sembra amare tanto l'eleganza formale dell'immagine quanto il suo lato più indecente, imbastendo da una parte scene e movimenti macchina di grande pregio tecnico e visivo (specie considerata la sola stanza come location) e dall'altra regalando inquadrature a tutto schermo in un'erezione - seppure sotto i pantaloni.
È un cinema vibrante e viscerale, che si nutre d'istinto lungo un percorso già settato ma che, in questa sua curiosa artificiosità, vuole sorprendere e ammaliare ed elettrizzare lo spettatore. Spesso ci riesce, con una propulsione narrativa sempre mutevole e mai fine a se stessa, altre volte si ingabbia in una sorta di loop che aspetta solo di essere spezzato. Il dominio è in fondo un modo d'incarcerare l'altro, sopraffarlo al proprio volere e giocare con lui. Nella fantasia di un cliente, perdere il proprio potere e dunque il proprio controllo - e con essi status sociale, denaro e tutto il resto - è un modo di mettersi a nudo per disarmarsi (e non disamarsi), così da abbandonarsi alla sottomissione per sentirsi liberi e in un certo senso scoprire lati del proprio Io altrimenti irraggiungibili. In Sanctuary la sottomissione è però soprattutto psicologica, e anche se nasce dalla mente di Hal poi viene trasformata, scomposta e ri-calibrata da Rebecca, che la eleva a vera e proprio forma d'arte e psicanalisi, impedendo tanto a noi quanto al suo cliente di comprendere cosa sia fantasia e cosa invece realtà.

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Lui e lei

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Sanctuary: Margaret Qualley in una scena

Quelle a cui assistiamo nel film sono le molteplici e possibili permutazioni di una relazione tra dominante e dominato. C'è un gioco in atto e il fine - come detto - è prevaricare sull'altro, essere al comando, guidare fantasia e mente di chi si ha davanti. In questo senso, è un vero e paradossale specchio della società, perché inverte il concreto predominio maschile sul sesso femminile, peccato reiterato da centinaia di anni di fallocentrismo egocentrico. Wigon e Bloomberg ridanno allora potere alla donna, totale ed esasperato, mostrando come il tropo sociale andrebbe in effetti ribaltato per poi essere sovvertito ed eliminato. È un discorso d'equilibrio delle parti, d'accettazione e compromesso, di reale uguaglianza: c'è chi può e chi non puoi, lui o lei che sia. Ed è nel mentre della sottomissione che il pensiero scardina tutte le porte concettuali e cresce e si fa forte, lenendo ogni insicurezza recondita per arrivare alla verità.

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Sanctuary: Margaret Qualley in una scena

In contesto è Hal a scoprire molto più di se stesso grazie a Rebecca, ma di fatto a "giovarne" di più è lei, a ricavarne non solo piacere, ma guadagno in rispetto e posizione. Ed è straordinario come tutto questo inizi con un regalo e un addio per poi diventare tutt'altro, qualcosa di più, qualcosa di migliore. A rendere tutto elettrizzante ed elettrificato è soprattutto Margaret Qualley, esplosiva nel ruolo, dinamica nelle transizioni espressive e intime, di grande fisicità e sentimento, spesso collerica altre folle, ma poi anche amorevole, triste, vittima e carnefice. L'interpretazione finora migliore e più agguerrita e deflagrante della sua carriera. Ottimo anche Christopher Abbott, soprattutto in un lavoro di soppesata sottrazione rispetto a quello d'addizione della collega e che supera comunque le proverbiali righe dal basso anziché dall'alto, facendo suo il ruolo. Entrambi superlativi e pronti ad esagerare, riflettere e tornare ancora a oltrepassare il limite. Come Cristo quando scacciò con enorme e incontrollata collera i mercanti dal tempio di Gerusalemme, ottenendo qualcosa di buono attraverso qualcosa di esasperato, salvando cioè il sacro santuario da un atto profano con un atto di salvifica profanazione del proprio animo. Anche questo un paradosso.

Conclusioni

Un film piccolo, elettrizzante e stratificato, questo Sanctuary di Zachary Wigon, che alla sua seconda opera dimostra un talento per il genere, una visione benedetta per il thriller romantico. Anche merito dalla sceneggiatura di Micah Bloomberg e delle stupefacenti interpretazioni di Margaret Qualley e Christopher Abbott, che riempiono e totalizzano il prodotto. In conclusione di recensione, Sanctuary è un'opera intima e complessa sulla natura umana e delle relazioni di potere, tanto nei sentimenti quanto nella società, fino alla scoperta di un vero Io nel primo caso e di una sovversione progressista nel secondo.

Movieplayer.it
4.0/5
Voto medio
4.6/5

Perché ci piace

  • La regia di Zachary Wigon, virtuosa e sorprendente.
  • Le superlative interpretazioni di Margaret Qualley e di Christopher Abbott.
  • Dialoghi e sceneggiatura lavorati al cesello: nulla è lasciato al caso.

Cosa non va

  • Forse la sua ricercata artificiosità potrebbe rappresentare per qualcuno un invalicabile muro formale.