A volte un piccolo nucleo domestico, con le sue problematiche, i suoi sorrisi, le sue lacrime nascoste, può elevarsi a rappresentante di soprusi universali, sofferenze condivisibili. I dolori di uno si tramutano così in quelli di altri mille sconosciuti. E basta una voce alzata, un no sbattuto tra le linee di un telefono, che il silenzio di molti si fa la denuncia di un singolo.
Come sottolineeremo in questa recensione di Salvate Maya, il documentario disponibile su Netflix eleva il caso della famiglia Kowalski come atto denunciatorio nei confronti di un sistema che al posto di indagare, analizzare e assistere famiglie già sull'orlo del più sofferente precipizio, preferiscono intraprendere un percorso più facile e meno impervio: togliere il piccolo e affidarlo in altre mani, anche se non vi sono le prerogative necessarie, anche se le motivazioni sono nulle. E così il dolore si moltiplica all'impazzata, come una calcolatrice che non funziona più, stabilendo un risultato destabilizzante e incomprensibile. Quella che inizia a farsi largo è dunque una mano che dall'alto prende e schiaccia, facendo a pezzi nuclei famigliari certamente imperfetti, ma uniti da un legame di umana comprensione. Un'implosione, questa, che Henry Roosevelt riesce a tracciare con semplicità, senza modifiche o incursioni di natura retorica, per raccontare senza intromettersi, narrare senza giudicare, una ferita ancora aperta nel piccolo universo dei Kowalski.
Salvate Maya: la trama
Cento minuti: tanti sono bastati a Henry Roosevelt per raccogliere ogni informazione e testimonianza necessaria per rievocare l'odissea umana, medica e giudiziaria della piccola Maya Kowalski e della propria famiglia. Tutto inizia nell'ottobre 2016 quando Jack Kowalski porta la piccola Maya di nove anni al pronto soccorso del Johns Hopkins All Children's Hospital per l'aggravarsi dei dolori causati dalla Sindrome Dolorosa Regionale Complessa (CRPS) di cui la piccola è affetta. Da quel momento per i Kowalski prende il via un vero e proprio calvario: dopo pochi giorni dal ricovero l'equipe medica inizia a mettere in dubbio la natura dei rapporti familiari dei Kowalski, con la madre Beata che viene accusata di abusi sulla minore. Ciò segna per la coppia l'inizio di un incubo, che porta i genitori a essere allontanati dalla figlia, trattenuta in ospedale contro la sua volontà. Nei mesi atroci che seguiranno, Jack e Beata si ritrovano alla mercé di un sistema di assistenza all'infanzia del tutto cieco, e che li porta al centro di in una battaglia legale dalle conseguenze devastanti.
La condivisione del dolore
C'è una scia di terrore, di esitazione sul domani che avvolge Salvate Maya, fino a superare la cornice di visione e investire lo spettatore. La proiezione sul futuro è nulla; il vedersi strappata la propria felicità domestica è quasi tangibile; il senso di tradimento nei confronti di un sistema che all'incertezza di una diagnosi medica, preferisce cadere in piedi e puntare sulla scusante dell'abuso, è un brivido che riveste il corpo del pubblico incredulo. Un racconto doloroso, quello di Salvate Maya, e che ricorda per certi versi quello narrato da Pablo Trincia nel suo Veleno, soprattutto per la facilità con cui gli assistenti sociali riescano a recidere le radici di una stabilità famigliare, per alimentarla artificialmente di dolore e sofferenza.
La minaccia sociale
C'è un episodio in Grey's Anatomy - "Irresponsabili" - in cui la maturità di un bambino deciso a prendersi cura della propria madre affetta da Alzheimer è un motivo sufficiente per il dottore Stark per chiamare i servizi sociali. Una motivazione azzardata, eccessiva, quasi irrealistica agli occhi di molti, che rende l'episodio quasi esagerato nella sua messa in scena di una fattibile realtà. Poi arrivano casi come quelli di Bibbiano, o quelli narrati da Salvate Maya, e tutto viene messo in discussione: la realtà narrata supera addirittura la concezione di una sua trasposizione fantastica. Il mondo là fuori fa più paura di quello mostrato sul piccolo schermo. E così, come dimostra il documentario firmato Netflix, l'abuso di potere da parte di assistenti sociali chiamati - come suggerisce il titolo del loro stesso ruolo - ad assistere e supportare le famiglie, si concentrano sulla zona d'ombra dei propri dubbi, vedendoci rispecchiati il lato più oscuro e ignobile delle possibilità che esso può suggerire, così da rilevare del marcio dove tutto appare chiaro e innocente.
Canovaccio di obiettività
Quello messo insieme da Salvate Maya è dunque lo stesso canovaccio narrativo seguito da molti dei documentari di successo firmati Netflix. Nessuna intromissione da parte degli autori; sono le testimonianze dei protagonisti, le loro confessioni, o le loro registrazioni audio e video, a comprovare quanto seguito e narrato dall'opera documentaristica. Messe insieme, le sequenze si elevano così a tessere di un puzzle che, analizzato a posteriori e a mente fredda, permette allo spettatore di emanare un proprio giudizio personale sulla vicenda. Con oggettività di racconto, il regista Henry Roosevelt - coadiuvato da un ottimo lavoro di montaggio - allestisce un teatro dell'ingiustizia senza far trasparire mai il proprio pensiero. Ne consegue un racconto di matrice corale, durante il quale ogni singolo protagonista ha la possibilità di fornire la propria versione della storia; una storia con un inizio, uno sviluppo, ma ancora in attesa di un'agognata, lunga, fine.
La fortuna di realizzare un documentario ai giorni d'oggi sta tutta qui: nella possibilità di accedere a un archivio di materiale audio-visivo corposo, grazie al quale tracciare le fasi di un evento con quanta più obiettività possibile. In Salvate Maya quello messo a disposizione agli autori è un corollario di registrazioni intime, disperate; un oceano di parole prese in prestito dal passato, attraverso cui sottolineare e comprovare ogni dolore, lutto e pensiero traumatico del presente.
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Moltiplica il dolore, sottrai giustizia
Esiste una correlazione perfetta tra i ricordi dei protagonisti, e gli audio e/o i filmati dati in offerta a uno sguardo sempre più attonito dei propri spettatori. Ciononostante, in questo mare di brividi, per una storia agghiacciante e inconcepibile per la propria ingiustizia, qualcosa pare mancare tra gli interstizi di una fotografia fredda e glaciale. È una componente di debolezza umana, di una parte del racconto che va perdendosi nelle fasi più dolorose degli eventi narrati. Il poco spazio dedicato alle innumerevoli altre famiglie toccate da episodi simili (e con conseguenze altrettanto debilitanti e psicologicamente deleterie) unitamente alla mancanza di confessioni e interventi da parte di Maya e del fratello in determinati momenti dell'opera, sono segni "meno" in una storia dove tutto è moltiplicato nella casella del dolore e dell'ingiustizia. Una storia che, elevandosi a portavoce di grida di aiuto tenute silenziose, con Salvate Maya spera e attende arrivare finalmente a un più; più calma, più serenità, più giustizia.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Salvate Maya sottolineando come ancora una volta Netflix si dimostra contenitore perfetto di documentari di impatto, capaci di raccontare una storia lasciando che sia il proprio spettatore a sviluppare una propria idea sulla vicenda. Quella di Maya e della sua famiglia, è solo l'ultimo capitolo di un romanzo già scritto migliaia di volte, ma rimasto all'oscuro di occhi mediatici. La negligenza dei servizi sociali, e l'impatto che le loro scelte possono avere sulla vita di famiglie innocenti, sono qui trattati con cura ed eleganza, lasciando che sia l'assurdità dei fatti a tracciare il segno della verità e della colpevolezza.
Perché ci piace
- L'uso dei materiali a disposizioni, senza alcun intento da parte degli autori di influenzare il pubblico.
- La scelta di far conoscere un caso poco noto al di qua dell'oceano.
- L'obiettività di racconto.
Cosa non va
- La mancanza di interventi forti da parte di Maya e di suo fratello in certi passaggi della storia.
- Il poco spazio destinato a famiglie dalla storia simile.