Attore, cabarettista, autore teatrale, musicista, da poco tempo (ma con grande successo) regista: Rocco Papaleo, formatosi a teatro e affermatosi definitivamente alla corte di Leonardo Pieraccioni, è uomo di spettacolo eclettico e multiforme. Il cinema e la televisione gli hanno dato il successo e la notorietà, ma lui non manca di ricordare le sue radici teatrali: così come non manca di sottolineare la sua passione per la musica, nonché la sua continua ricerca di una musicalità, di un tempo e di una "linea melodica", in tutti i campi del suo lavoro. Atteso in sala con Una piccola impresa meridionale (sua seconda regia dopo il grande successo di Basilicata coast to coast), l'attore lucano è stato protagonista di una masterclass nella corrente edizione del RomaFictionFest: una chiacchierata in cui Papaleo ha spaziato su ogni aspetto della sua carriera, tra aneddoti, battute e rivelazioni più o meno curiose, con un'ironia sempre piacevole quanto garbata. A moderare l'incontro, il direttore artistico della manifestazione Steve Della Casa, in un'atmosfera di grande rilassatezza e familiarità, nonostante la buona presenza di pubblico in sala.
Quanto ti ha influenzato, dopo il tuo esordio del 1989 con Il male oscuro di Mario Monicelli, l'essere passato subito a lavorare per la televisione?
Rocco Papaleo: Mah, non molto. Bisogna ricordare che 20-25 anni fa non era così diffuso il fictionismo, e recitare nella fiction non era considerato un'impurità. Quella serie, Classe di ferro, in seguito non fu più rinnovata, e ho passato 3-4 anni di "purificazione" a teatro; ma questo è successo semplicemente perché in televisione non mi chiamavano più . Il primo film vero e proprio è stato con Pieraccioni, nel '95, e da lì è partita la mia storia cinematografica.
Forse sono io che ho particolare simpatia per loro, o forse è un caso. Ho frequentato molto quell'atmosfera, è vero, ma di base c'è una simpatia personale con ognuno di loro: con Virzì ho abitato, Veronesi è stato il mio talent scout, mentre Pieraccioni è un po' il figlio artistico di quest'ultimo: è stato proprio Veronesi a suggerirmi a lui.
Monicelli era famoso per le frasi taglienti che a volte riservava agli attori. A te, ne ha dedicata qualcuna?
Oddio, quel film sarebbe il caso di toglierlo dal mio curriculum. Ho fatto solo una posa, ovvero una giornata di lavoro: recitavo nelle scale, da fuori campo urlavo una battuta a Giancarlo Giannini. Monicelli neanche si è accorto che c'ero, infatti l'ho conosciuto in seguito grazie ad Alessandro Haber, ad un aperitivo. Lì ci ho parlato davvero per la prima volta, e gli ho detto che avevo lavorato per Il male oscuro: lui ha detto che non se ne ricordava.
Pieraccioni è attore e regista. Come si lavora con un regista che è anche attore?
Ho fatto sei film con lui, la nostra è amicizia profonda... sempre che anche lui lo confermi! Non penso lui sia un regista, così come non lo sono io e come in generale non lo sono i registi-attori... oddio, c'è Nanni Moretti, ma per lui il discorso cambia. Forse ho detto una cazzata! Ok, ricominciamo. In realtà sia io che lui non siamo registi. Lui è più un poeta della comicità, ha il suo mondo e la sua letteratura che gli si forma nella testa. E' stato anche autore di libri. Lui ha una sua visione, che spero di avere anch'io quando mi cimento in queste cose. Non c'è tra noi un rapporto vero di attore e regista, quando giriamo sappiamo già un po' tutti e due cosa c'è da fare. In realtà, non è proprio la stessa cosa di lavorare a... non è proprio la stessa cosa di lavorare, ecco!
Io intanto ho fatto una scuola di recitazione, anzi due perché la prima in realtà faceva schifo. Nella seconda ho fatto un bel lavoro, con un insegnante che mi ha formato e mi ha dato gli strumenti giusti. Non ho mai avuto un approccio "di parte", non ho mai pensato di recitare come attore comico, drammatico, grottesco, ecc. La mia direzione è quella della ricerca di una particolare verità, di un metodo che in realtà è un non-metodo: ogni volta cerco la strada in modo diverso. Approccio la recitazione come ricercadi una verità musicale: ovvero, si tratta sì di essere veri, ma la verità non è sufficiente. Bisogna cercare una linea melodica e un ritmo. Mi appoggio alla mia attitudine musicale, ecco... si tratta di essere veri con un certo swing, diciamo.
Hai lavorato anche con Checco Zalone. La sua è ancora un'altra maniera di essere attore-regista?
Lui non lo è proprio, nei suoi film c'è Gennaro Nunziante che muove le fila. Lui comunque mi piace molto, abbiamo una similitudine nel nostro rapporto con la musica: lui ha grande musicalità e orecchio, e come me è un autodidatta. Questo lo facilita nel raccordarsi, sia con gli altri attori che con se stesso.
Quanto ha cambiato nella tua vita l'aver presentato Sanremo?
Senz'altro ha cambiato molto, infatti ora mi pagano di più! Mi sono dovuto sporcare la mani anche con la pubblicità dell'Eni, che ha provocato problemi e polemiche su cui ora non è il caso di tornare. Sanremo è un'esperienza che non può non cambiare, nel bene e nel male. Poteva anche essere un disastro; ma fortunatamente era molto vivo il ricordo di me bambino con il televisore, nel mio paese, con intorno cento persone in un salotto a guardare Sanremo. Sono cresciuto con quel mito e quella fascinazione, l'anno prima avevo anche chiesto di partecipare con una mia canzone. L'ho fatto perché volevo affermare la mia voglia di essere cantante: Sanremo, per chi canta, è un po' come l'esame di guida per la patente.
Non posso dimenticare le serate fatte in un posto che si chiama Il Locale, un luogo importante per la scena musicale romana negli anni '90: da lì sono venuti Max Gazzè, Daniele Silvestri, i Tiromancino, i Subsonica, e tanti altri. Era frequentato anche da attori, erano momenti di grande contaminazione artistica. Uscivo sempre un po' barcollante, ma vabbè.
E il concerto più brutto è stato quello con Sabrina Ferilli a Sanremo?
No, quello in realtà è stato carino. C'era il mio primo gruppo, che era composto da gente che aveva suonato con tutti, da Antonello Venditti a Renato Zero. Il loro sound lo chiamavano Rhythm & Blues acustico. Quella sera suonammo proprio questo. Se durante uno spettacolo comico nessuno ride è un bel problema, ma quando suoni, in qualche modo sei isolato nel tuo mondo: la reazione del pubblico non è un gran problema. A differenza della recitazione, lì stai suonando per te stesso.
Basilicata coast to coast è stato uno degli esordi più premiati in assoluto. E' piaciuto, ha vinto premi e la gente è andata a vederlo. Come mai secondo te è andata così bene?
Se lo sapessi, avrei usato la stessa strategia nel film nuovo, invece ho il terrore che stavolta non la farò franca... In realtà, quando è uscito non c'è stata proprio l'unanimità. Recentemente ho letto una recensione molto negativa che uscì sul Giornale: ma è normale, ognuno vede un film come vuole. Il film, il suo fascino se l'è guadagnato negli anni: ha trovato una corrispondenza un po' imprevedibile, il suo segreto di Pulcinella era nella sua ecologia esistenziale. Lì c'era una suggestione che il pubblico ha apprezzato, in modo trasversale, a prescindere dall'età. E' un film autentico, c'è della sincerità dentro, e c'è della bella musica.
Ho detto loro di cercare una musicalità, e di recitare con un dolore dentro, un disagio. È quello il tono che a me piace, mentre non mi piace la farsa: mi piace che si subisca un po' la vita, e ci si addolori con ironia.
Com'è recitare con Luciana Littizzetto?
Mi stai citando tutte persone speciali: lei è una di loro. Non lo dico per esercizio di diplomazia: io l'adoro, con lei ho un rapporto molto profondo, mi fa piacere passarci del tempo. Quel film è stato proprio un'occasione per stare più tempo insieme. Nella vita non è così pungente come appare quando recita, mi rendo conto che è difficile crederlo, ma nella vita è una ragazza molto dolce.
Nel 2000 hai recitato anche nella fiction Padre Pio - Tra cielo e terra. Che ruolo facevi, lì?
In quella fiction interpretavo Frate Nicola, che era un po' una figura sintesi di tanti fraticelli avvicendatisi al fianco del Santo. È stata una bella esperienza anche quella, un po' mistica, diciamo, anche se non sono un credente. In quel momento mi sono successe cose belle, cose spirituali. Per esempio ricordare le battute di Michele Placido, essere pronto a suggerirgliele... quello sì che era un miracolo! A parte gli scherzi, avevamo un coach, un frate che ci spiegava come essere frati. Io avevo voglia di provocarlo, questo fraticello, e lui mi spiazzava sempre, ogni provocazione la prendeva "da sotto", senza essere prosopopeico: lui ribaltava le mie provocazioni. Io bestemmio con una certa frequenza, dico la verità, e me ne vergogno: ma l'ho preso da mio padre, anche lui bestemmiava. Non sono proprio uno stinco di santo, ecco. Il primo giorno di riprese, io recitavo il mio personaggio quando aveva 70 anni, e dovevo fare la mia scena madre: si trattava di leggere le lettere del futuro Papa Wojtyla, lettere in cui si chiedeva un miracolo. Mi stavo giocando la mia scena madre, e ne ero consapevole. Dopo il ciak, dovevo entrare in campo e andare a leggere queste lettere. Mentre mi avvio, improvvisamente, sento come qualcuno che mi spinge: mi giro e non c'è nessuno. Ok, suggestione, ovviamente. Però la sensazione c'è stata. Non è stata proprio una spinta, un gesto brusco: più come un accompagno, diciamo.