Roma città aperta ha cambiato forma varie volte dalla sua ideazione al concepimento finale, tranne che per un particolare: il mantenimento di un'anima collettiva e, con il senno di poi, è straordinario vedere come, ripercorrendo la sua travagliatissima produzione, lo sforzo collettivo è proprio ciò che l'ha resa possibile. L'idea di partenza di Sergio Amidei, comunista e partigiano, e Alberto Consiglio, monarchico e cattolico, era creare una raccolta di storie di persone comuni che non si piegassero ai soprusi della vessazione nazifascista, lasciando il resto in secondo piano. La preoccupazione primogenita era essere all'altezza della memoria della Resistenza e, all'epoca, date le grandi mancanze economiche e tecniche (come l'elettricità e il reperimento della pellicola, distrutta dai tedeschi o requisita dagli americani) non si poteva neanche pretendere di dar vita a qualcosa di definito.
Fu poi l'intervento di Roberto Rossellini e del grande direttore della fotografia Ubaldo Arata a risultare determinante per la riuscita di un lungometraggio talmente compiuto da essere rivoluzionario, cambiando così le ambizioni di un titolo che fino al secondo soggetto era "Storie di ieri" e il cui formato poteva essere quello di un cortometraggio piuttosto che di un film a episodi. Al centro la volontà che i personaggi principali ricalcassero le orme di persone realmente esiste, come la Pina di Anna Magnani, ispirata a Teresa Gullace, donna italiana uccisa dai soldati nazisti mentre tentava di contattare il marito prigioniero, e come il don Pietro Pellegrini di Aldo Fabrizi, ispirato a don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo, due figure di spicco della Resistenza.
Il contributo dei due attori già famosi, aiutati dal lavoro in sceneggiatura di Federico Fellini, che sfumò la pellicola di commedia popolare, fu fondamentale, perché con il loro peso permisero al film di essere acquistato dalla Minerva Film e poi di essere distribuito in giro per il mondo, dove raccolse numerosi riconoscimenti, dalla vittoria a Cannes fino alla nomina agli Oscar. Un viaggio internazionale che consentì alla pellicola di legittimare ancora di più l'idea con la quale è nata, riuscendo parallelamente a cambiare per sempre la Storia del cinema. Roma città aperta è più di un'opera filmica o di un miracolo creativo. Roma città aperta è un monumento morale dedicato ai fondamenti della Repubblica italiana.
La resurrezione del cinema italiano
"La storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta." Otto Preminger
Per "città aperta" si intende una città in cui, a seguito di un accordo esplicito o tacito tra le parti belligeranti, si rinuncia alla difesa armata e ai combattimenti con lo scopo di evitarne la distruzione per un interesse storico, culturale o per il numero di civili che rimarrebbero coinvolti. Magari anche per tutte e tre le cose, come nel caso di Roma.
Eppure, dopo la caduta di Mussolini nell'agosto del 1943 e l'assegnazione di questo status alla capitale d'Italia, l'occupazione nazifascista perdurò e la città fu bombardata dagli Alleati per un altro anno (9 mesi per essere precisi), tant'è che al loro ingresso, nel giugno del 1944, ad accogliergli trovarono migliaia e migliaia di macerie e di cadaveri, dovuti a privazioni varie, fucilazioni e rastrellamenti. Non solo, l'industria cinematografica italiana non esisteva più a causa dello smantellamento di Cinecittà, che era divenuta un vero e proprio campo di sfollati composto da coloro che provarono a ripararsi dalle bombe e dalle violenze.
Roma, città aperta, le cui riprese iniziarono nel 1945, quando la Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso, divenne dunque presto un simbolo di resurrezione della città di Roma, dell'Italia e del cinema italiano in generale. Un film sulle libertà, anzi sull'ossessione del recupero delle libertà e che, per questa sua incredibile voglia, decise di riappropriarsi di ciò che la censura fascista aveva vietato, come la menzione del comunismo, l'omosessualità, l'uso delle parolacce e la droga. Un film che, in mezzo alle mille limitazioni e proprio in virtù di esse, diede vita al neorealismo, il più grande movimento della Storia del cinema.
La memoria della Resistenza
Non c'è trionfalismo in Roma città aperta, non c'è manifesto politico, non c'è un incitamento alla ribellione o una chiamata alle armi, ma una rappresentazione netta e senza nessuna possibilità di fraintendimento tra bene e male. Una differenza rappresentata dalla divisione tra l'umanità del popolo romano (e quindi italiano) e la disumanità dei nazisti e dei fascisti. Questi ultimi, infatti, sebbene siano ritratti sempre nel lusso, sono fin da subito in completa decadenza, già prossimi alla morte, a dispetto di una Roma ferita, impaurita, vessata, ma incredibilmente vitale.
Questi ritratti in opposizione, che prendono vita nel racconto delle intimità di chi li compone, costituiscono un leitmotiv su cui Roberto Rossellini cominciò a lavorare proprio in questo film e che si porterà dietro in Paisà e soprattutto in Germania anno zero. Un bisogno di rimettere al centro l'umanità delle persone, che con le loro gesta quotidiane cambiano il mondo, resistendo a coloro che predicano la morte per il cineasta e accedendo così ad una dimensione trascendentale, indicata tramite la simbologia cattolica. Presente sia nella morte della Pina di Anna Magnani, incinta e già vedova, che si immola come un Cristo donna, e sia nella fucilazione del don Pietro Pellegrini di Aldo Fabrizi, alla cui morte assiste la generazione che dovrà sopravvivere per ricordare.
I bambini in Roma città aperta rappresentano l'infanzia perduta, l'innocenza che la guerra si porta via e quindi ciò che bisogna difendere più di tutto. La missione dei protagonisti del film è proprio questa, in un certo modo, ovvero riuscire a proteggere la vita di coloro che dovranno ricostruire un Paese, un mondo, un immaginario e uno spirito negli anni che verranno. Il compito dell'umanità nella sua interezza è quello di riuscire a rimettere un futuro condiviso al centro dei progetti di tutti, in nome della memoria di chi ce lo ha permesso.